Intervista a Rebecca Samonà

L’OMBELICO E LA STORIA: TRE DOMANDE A REBECCA SAMONÀ.

Domanda – Hai pensato mai che ti avrebbero criticata per esserti messa al centro di un racconto storico e umano dalla portata gigantesca, davvero immenso, come guardandolo attraverso il tuo ombelico?

Risposta – E’ stato un dubbio che è durato mesi, ma in realtà questa critica non è arrivata, anzi, è stato uno dei punti di forza. Sentir raccontare questa storia « dal di dentro » permette allo spettatore di emozionarsi senza provare un cieco, ineffabile orrore, ma sorridendo, un sorriso amaro. Per questo il film si chiude con un augurio contenuto in una poesia di Primo Levi ispirata a Pesach, la Pasqua ebraica: « ANCHE TU STRANIERO, QUEST’ANNO IN PAURA E VERGOGNA L’ANNO VENTURO IN VERITA’ E GIUSTIZIA ». E’ un augurio universale di liberazione e riscatto.

Questo spostamento dell’asse dall’impersonale al personale, dal documento al diario, è stato possibile grazie alla collaborazione al soggetto di Sara Pozzoli, regista documentarista con una formazione cinematografica vera e propria. Abbiamo discusso questo punto per mesi, e alla fine ho ceduto: mi metto in mezzo, leggete i diari del nonno soldato, identificatevi in queste ragazze allegre di Rodi, crogiolatevi nel sole del Mediterraneo, e ascoltate la voce di un’altra generazione, la mia: la terza generazione, quella che non c’era.

D – Come ti sei sentita al centro del racconto?

R – Molto a disagio. Dopo aver fatto molta televisione e in particolare documentari televisivi di argomento storico « classici » – immagini di repertorio e interviste per intenderci, per me era inconcepibile scavalcare la barriera del pudore e mettermi al centro della Storia, addirittura della Shoah. In più, l’aver realizzato molte interviste a sopravvissuti all’Olocausto per la Shoah Foundation mi faceva sentire come totalmente paralizzata di fronte all’enormità delle tragedie che avevo raccolto da chi le aveva vissute sulla propria pelle. Era imbarazzante buttarsi là in mezzo: io che non ci ero mai stata.

Ma ero molto determinata su un punto: volevo realizzare qualcosa di diverso dai documentari che avevo visto fino a quel momento, realizzati anche di recente da registi importanti. Parlare, più che della morte, di tutta quella vita che era andata distrutta con la Shoah, e non tanto di COME era andata distrutta: questo a mio avviso era già stato fatto con risultati anche straordinari.

Certo, degli ebrei di Rodi si sapeva pochissimo in Italia, così come della resistenza dei badogliani nei giorni confusi dopo l’8 settembre raccontati così vividamente da mio nonno nel suo diario, e valeva la pena riempire questo vuoto di memoria. Ma se non fosse stato per il fatto di vedere con i miei occhi mia zia Stella, sopravvissuta ai campi, ormai anziana e in casa di riposo, ma convinta di essere di nuovo ad Auschwitz fino alla sua morte, non mi sarei mai convinta a fare il film. La sua storia spezzata è la storia di tutti: in Bosnia, in Iraq e ovunque ci siano tortura, annientamento, stupro ecc. Quello che per me appartiene al passato, oggi è la storia di altri, ed è importante a mio avviso averlo ben presente, saper riconoscere le tappe che portano a tragedie altrettanto indelebili: serve ad evitare stupidi paralleli fra l’oggi e ieri, applicando la parola Olocausto a tutto e a tutti. Non è questo l’importante, cioè decidere se la Shoah è unica o meno, ma è importante riconoscere il momento in cui un gruppo etnico, sociale, di genere, politico, è oggetto di quella speciale marcia a tappe forzate verso l’annientamento, il più delle volte fra l’indifferenza degli « altri ».

Domanda: si ma perchè l’ombelico e la narrazione in prima persona?

Risposta – Direi più che altro un cordone ombelicale! (battutaccia… soggiunge, ridendo) Insomma la vita di belle speranze di mia zia Stella, spezzata dalla Storia è universale e sempre attorno a noi in altre forme, ed è per questo che racconto la storia di un gruppo di ragazze (mia zia Stella, mia nonna e le loro amiche) e dell’infanzia di una bambina (mia madre). Il caso ha voluto che durante le riprese del film fossi anche incinta, e questa mia mia seconda gravidanza mi ha fornito quel pizzico di coraggio in più per raccontare la storia come la racconterei ai miei figli, senza indulgere nell’orrorifico, a colori, ma con pudore e misura. Anni prima, alla casa di riposo, ho capito l’importanza di conservare quelle memorie, poi mia madre ha trovato il diario del nonno, e ho cominciato a scrivere quando ero incinta del primo figlio, e con le difficoltà produttive proprie del cinema indipendente, è trascorso del tempo, finendo per per girare il film mentre aspettavo la seconda…e così torniamo all’ombelico! (ride)

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