Passeurs de mémoires…

La memoria è il cuore dell’umanità, è quella per cui questa letteralmente vive e, contro la morte, il silenzio, passa da una generazione all’altra, si modifica, restando umana, diventa cultura. Storia.

Ma quale? Sempre e comunque facciamo storia, come ricordava insistente il grande Ernesto De Martino, anche quando pensiamo di non farla, di uscirne: non c’è spazio, anzi tempo, per noi, al di fuori della res gestae, che sono appunto il nostro tempo umano. Poi c’è la riflessione su di esse, la historia rerum gestarum, appunto la storia in quanto disciplina. Infine, ci sono les res gerendae: il divenire al futuro, come sudore o speranza, o ancora rivoluzione, palingenesi.

Da sempre le diverse società umane hanno avuto bisogno di strutture e funzionari specializzati nella trasmissione: aedi, cantori, cantastorie. I passeurs de mémoire non sono storici di professione, non devono spiegare ; devono raccontare, magari anche, perché no, ricamando, variando, perché le memorie possono essere, sono diverse – anche se è a partire dai loro racconti, per essi, che la storia ha potuto nascere, è possibile.

Del resto, questa memoria non è un oggetto che preesiste al fatto di « passare », ma un qualcosa di inafferrabile in sé e che nasce e vive passando e trasformandosi pur mantenendo un nucleo inalterato. I Greci parlavano di ineffabile « parola alata ».

Passeurs, what does it mean ? e perché in francese ? Non per snobbismo, né per coquetterie, e neanche, o non soltanto, perché jongler fra le lingue fa parte della nostra realtà quotidiana, ci piace. Ma perché questo termine, letteralmente intraducibile, è altamente significativo, e ci permette di riflettere.

I passeurs, letteralmente appunto, « traghettano », aiutano la memoria a passare attraverso le generazioni, nel tempo ; proprio come, nello spazio, gli immigrati cercano di passare attraverso le frontiere. Anche in questo caso si parla infatti di passeurs, pur se certo, in questa occorrenza, le connotazioni sono troppo spesso sinistre. Il paragone però resta importante, in quanto dice di un’umanità in movimento, e inesistente al di fuori di questo, nello spazio come nel tempo.

Non esistono culture autoctone : si arriva sempre da fuori (a volte dal mare, che non appartiene a nessuno e appartiene a tutti), sempre il prodotto di un metissaggio, più o meno lontano nel tempo, e continuamente. Non esistono, o sono votate allo svuotamento, culture senza memoria, ed è solo a partire da questa che son possibili, fra altre cose, la verità della storia e la giustizia.

Ma la memoria forse è più importante perché lei sola può, a volte, aprire al perdono.

Giuseppe A. Samonà

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Giuseppe A. Samonà
Giuseppe A. Samonà, dottorato in storia delle religioni, ha pubblicato studi sul Vicino Oriente antico e sull’America indiana al tempo della Conquista. 'Quelle cose scomparse, parole' (Ilisso, 2004, con postfazione di Filippo La Porta) è la sua prima opera di narrativa. Fa parte de 'La terra della prosa', antologia di narratori italiani degli anni Zero a cura di Andrea Cortellessa (L’Orma 2014). 'I fannulloni nella valle fertile', di Albert Cossery, è la sua ultima traduzione dal francese (Einaudi 2016, con un saggio introduttivo). È stato cofondatore di Altritaliani, ed è codirettore della rivista transculturale 'ViceVersa'. Ha vissuto e insegnato a Roma, New York, Montréal e Parigi, dove vive e insegna attualmente. Non ha mai vissuto a Buenos Aires, né a Montevideo – ma sogna un giorno di poterlo fare.