« Oh mia patria, di Vanni Pierini ». In che senso ‘ci sentiamo’ italiani.

Dopo aver letto l’antologia in tre volumi di Vanni Pierini, Oh mia Patria: Versi e canti dell’Italia unita (1. Nascita di una nazione (1796-1870); 2. L’Italia regia (1871-1946); 3. L’Italia repubblicana (1946-2011). Roma: Ediesse 2011).
Altritaliani ripropone l’articolo pubblicato di recente. Seguito da una risposta dell’autore dell’antologia, Vanni Pierini. (Clicca sul link), e non solo…

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Italia, Italie, Italiani, e italiano, come lingua: madre, nonna, o acquisita, scelta, e compagna di tutta una vita… Le righe che seguono non sono una recensione, ma la riorganizzazione di qualche appunto preso durante il viaggio dentro un mostro tricefalo – tre volumi, per più di duemilaquattrocento pagine, attraverso più di due secoli di storia ! In questa prospettiva, anche, costituiscono una riflessione a posteriori, una volta terminata per intero la lettura, e una sorta di eco, su scala ridotta, alla Postfazione scritta da Vanni Pierini alla fine del suo terzo volume, e che qui con il suo permesso riproduciamo per intero: Congedo.

Congedo di « Oh mia patria » di Vanni Pierini

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Scorrere, correre, percorrere, ripercorrere, saltare, esitare, rallentare, soffermarsi, fermarsi, tornare indietro, leggere e rileggere, ad alta voce, o sussurrare, mormorare, sorprendersi, irritarsi, commuoversi, sorridere, declamare, assaporare, riassaporare, esaltarsi, avvilirsi, sillabare, accarezzare i suoni, cantare, e di nuovo tornare indietro, ricominciare, con metodo, di seguito, come se fosse un romanzo, ed ancora rallentare, esitare…: così, spontaneamente, mi è venuto di addomesticare il mostro.

L’approccio, potrei dire, prima che storico o storico-critico è stato immeritatamente « poetico », non nel senso di pretendermi io stesso creatore, ma nel senso di quel sentire, di quell’abitare su questa terra appunto poeticamente evocato da Hölderlin, a proposito dell’essere umano, nel sublime verso del doch dichterisch.

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Concretamente, qui, il sentire poetico cui alludo è quello di Proust, o meglio ancora del Perec di Je me souviens o della Natalia Ginzburg di Lessico famigliare. Come il Marco Polo delle Città invisibili di Calvino, ho avuto l’impressione che il mio avanzare, leggendo, fosse sempre e comunque « con la testa all’indietro », ricordando, e che il ricordare fosse sempre e comunque un avanzare nel futuro, anticipando – basta una sillaba, o due, che so Ei fu…, e un mondo si schiude, da dentro: Siccome immobile… Con la stessa facilità « naturale » con cui, anche a distanza di anni, sempre tornano i versi dell’Iliade, le arie di Opera, o anche – orrore, diranno alcuni, eppure sa così tanto d’Italia – le squadre di calcio immortalate dagli italianamente tipici fratelli Panini. Mondo, mondi di cose e parole che suonano, prima di significare, o che significano e suonano insieme, come formule magiche.

Ho ricordato, ricordo, e potrei dire: ricordiamo – ché l’esperienza che ho fatto varrebbe, con le caratteristiche differenzianti proprie a ciascuno, per qualunque lettore « italiano » (virgolette: ci tornerò alla fine) di media età e cultura. La memoria che emerge durante questo viaggio poetico è infatti, ancorché individuale, eminentemente collettiva, o persino famigliare: come se a quegli avvenimenti, anche se più antichi delle nostre vite, fossimo sempre noi ad averci partecipato, o magari i nostri nonni, e poi ce lo avessero narrato. (Continuerò a parlare alla prima persona singolare, riannodando le fila dei miei appunti, della mia esperienza: ma sempre si pensi che potrei parlare al plurale, per noi, i lettori – tentatela, l’esperienza, ne vale veramente la pena: e se il prezzo, mostruoso anch’esso – 100€ – risultasse proibitivo, fate acquistare l’antologia dalle vostre scuole, istituti, università, biblioteche, per poterne usufruire).

Il viaggio, insomma, si è trasformato rapidamente in un gigantesco ripasso (chi ha frequentato le scuole in Italia non potrà non sobbalzare, sorridendo), ma non un ripasso scolastico, bensì trasversale, di vita, attraverso luoghi, tempi, e situazioni diverse, un ripasso dolce amaro, ora esaltante, ora fastidioso, persino avvilente, ma sempre intenso, proprio, forte: ho riincontrato, riscoperto, poesie amate e le ho amate di nuovo, ed amato versi che non avevo amato o viceversa trovato brutti versi un tempo recitati con emozione, anche, ho scoperto e amato versi mai incontrati prima, ma come se già li avessi incontrati, come se li conoscessi da sempre. Come se appunto conoscere fosse semplicemente, sempre e comunque, riconoscere, ricordare.

Così, mi son perso nel Mostro, come in un labirinto di cui tuttavia intuivo, per esserci già stato, ogni angolo, ogni svolta, ogni apertura… E basta pensarci, ripensarci, anche adesso che scrivo, ed il caleidoscopio si rimette a girare –

(ecco, socchiudo gli occhi, provo, solo ripescando dentro, come viene : … dato il mortal sospiro… la vita che mi desti ecco ti rendo… dagli atri muscosi, dai fori cadenti… Santo Padre, don Marco è giacubbino… senza te paradiso, o teco inferno… il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola, bandiera bianca.. eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti… o bella Gigogin! Trallalà larà la-lera… da bravo Pierino, va piano, va piano… Compagni avanti, il gran Partito… Il bastimento avanza lentamente… Ma ringhiano feroci gli italiani… La Patria sta stranquilla, annamo a colazzione… Ho parlato a una capra, era sola sul prato… Spesso per ritornare alla mia casa, prendo invece la via di città vecchia… O Gorizia tu sei maledetta… Però se ritorni, tu, uomo di guerra… Di noi si parli, raucamente e poco… La morte si sconta vivendo… e bada ben che non si bagna, perché l’è da regalar… aspetta e spera che già l’ora si avvicina… ‘I renari ca tu m’hai mannato, m’aggiu magnate cu »nnamurate… E come potevamo noi cantare… considerate se questo è un uomo… Piazza di Spagna, splendida giornata… El furor de los traidores, rumba la rumba la rum ba ba… Se cercate in ogni sguardo, dietro un muro di cartone… Se il vento fischiava ora fischia più forte… E si farà l’amore ognuno come gli va… La 90 abbraccia la città, leggo in pace… Io sono nato in un dolce Paese… E potrei continuare ancora a lungo, scovare nuovi itinerari, tanto la lettura che ho da poco ultimata ha risvegliato ombre, ricordi, memorie…)

Cos’è dunque il talento, la creatività di un autore di antologie? Di questa antologia?

C’è l’introduzione, certo, le introduzioni storiche alle diverse parti, la griglia che cattura e ordina tali parti, le note e spiegazioni delle poesie, le notizie sugli autori utilizzati, e altre trovate che compongono l’apparato diciamo critico (su tutte queste cose, per altro, ci sarebbe tanto da dire, da discutere, punto per punto: alcune mi hanno trovato perfettamente d’accordo; altre – per fortuna! – meno, su altre ancora sono rimasto, per dirla alla francese, sur ma faim…

C’è ovviamente la scelta delle poesie, la loro pertinenza, la loro bellezza: eppure, lo si ricorderà, non tutte mi son sembrate « belle », loin de là…

Ma ecco, al di là e prima di queste cose, ce n’è una a mio avviso ben più importante: la capacità di isolare, e fare emergere, un linguaggio. Un linguaggio per il quale, come ho detto, si ha l’impressione di conoscere, di riconoscere, come le parole di un idioma familiare, anche le frasi, i versi, i pezzi che s’incontrano per la prima volta. Questa capacità, poeticamente e storicamente, Vanni Pierini l’ha dispiegata in pieno, e l’operazione è perfettamente riuscita: ed è secondo me il grande merito della sua « mostruosa » antologia, non a caso diventata rapidamente uno dei momenti forti nelle celebrazioni del tormentato Centocinquantesimo compleanno dell’Italia.

Storicamente, culturalmente, si potrebbe dire (ed è quel che spinge a dire, a pensare, l’antologia), per quel linguaggio siamo italiani. O meglio (mi viene da correggere), saremmo: perché il linguaggio, quel linguaggio, si muove, si muovono le sue frontiere, si meticciano da sempre i suoi temi, i suoi contenuti, alcuni muoiono, altri nascono.

Ad esempio, come parte di tale linguaggio, riconosciamo guizzi in romanesco, in siciliano, milanese, o persino in spagnolo: chi non sente come proprie, in Italia, alcune canzoni della guerra di Spagna? (significativo fra l’altro che l’autore non ritenga necessario di affiancarle di una traduzione…

… Significativo anche che, sempre lo spagnolo, mi possa far venire in mente un mirabile libro letto recentemente: Voces, dello scrittore italiano ma emigrato in Argentina all’età di 15 anni, Antonio Porchia, talmente italiano, talmente argentino, talmente spagnolo, per la lingua in cui scrive : potrebbe stare in questa antologia?)

Questo « linguaggio », insomma, non deve intendersi come unicamente, esclusivamente verbale, ma come uno strumento più complesso, che non saprei come definire, « verbo-mnemonico » forse, disposto appunto a servirsi, insieme all’italiano, di altri idiomi, o anche di elementi extralinguistici, per far emergere un sistema caratteristico di modi d’essere (gesticolare, sorridere, scherzare, inquietarsi, indignarsi, etc.), come dire, un’atmosfera. Il suo centro, tuttavia, è certo la lingua italiana, o più precisamente, al di là del suo valore significante, la relazione con le sue sonorità, con la sua musica, che orientano anche gli altri elementi: questa è – sembra dire Pierini, ed io mi sono ritrovato pienamente d’accordo con lui – una delle chiavi – la chiave principale ? – del sentirsi italiani.

(Mi è capitato di discutere con un amico che contestava all’antologia la scelta di alcune delle sue poesie, brutte, come anche il fatto di mischiare poesie e canzoni. Ma appunto il valore secondo me straordinario dell’ antologia di Pierini è proprio questo: di non aver voluto fare una raccolta di versi « belli », né di versi che parlassero necessariamente, direttamente dell’Italia, bensì un collage che di questa Italia, come collettività che si delinea nel tempo, facesse emergere cuore e contorni: come non ricorrere allora, proustianamente, anche alle canzoni che, persino se brutte, sono comunque intrise del sogno e delle lacrime degli uomini, contribuendo fortemente a conservare la memoria del passato ?)

Non voglio dire, ben inteso, che Francesi Inglesi o Spagnoli abbiano con la propria lingua un rapporto affettivamente meno «forte», meno complesso che gli Italiani : «affettivamente», del resto, un Canadese avrà un rapporto altrettanto «forte» con la lingua inglese o francese di un Inglese o un Francese, e lo stesso dicasi per un Argentino o un Messicano con la lingua spagnola rispetto a uno Spagnolo (e… per me stesso, quelle lingue avendo da tempo conquistato la mia vita, per questo le scelgo a mo’ d’esempio : se fuori dall’Italia mi accorgoc’est un pincement de cœur – di quando si parla italiano, in Italia mi accorgo di quando si parla francese, o anche spagnolo, etc. ; e non mi sembra – ma non l’ho mai misurato – che una cosa mi faccia sobbalzare più dell’altra…). Voglio dire, più semplicemente, culturalmente, non affettivamente, individualmente, che la lingua italiana possiede una peculiarità che la distingue da tutte le altre lingue summenzionate.

La Francia del XVI secolo, ad esempio, è già saldamente nazione, l’Italia dovrà aspettare altri tre secoli : ma un Francese di oggi, di cultura media, avrebbe grande difficoltà a comprendere la lingua di Rabelais, o Montaigne ; un Italiano di media cultura, invece, comprenderà quasi integralmente la lingua di Dante, vissuto quattro secoli prima di quelli. Come dire : francese, inglese, spagnolo nascono nel quadro di un destino, di una storia nazionale, e ad essa s’intrecciano ; la lingua italiana ne è completamente svincolata, e anzi sarà eventualmente questa lingua a costituire il quadro – o almeno, un suo elemento determinante – per una nazione ancora da farsi.

La questione, certo, è enorme (nonché risaputa), e meritererebbe di essere ben altrimenti discussa : qui voglio solo mettere in rilievo il fatto, apparentemente paradossale, che la lingua italiana sembra esistere molti secoli prima del paese… che l’ha vista nascere, e che pur libera, in certo senso, da uno spazio (o forse proprio per questo) si è mantenuta relativamente immutata nel tempo : ed è effettivamente con il tempo, più che con lo spazio, che sembra avere una relazione di fedeltà (qui si parla di origini, infanzia: perché poi l’inglese, il francese, lo spagnolo si sono scisse anch’esse, pur se in un altro senso, dal territorio che le ha viste nascere.)

Questa lingua, immutata nel tempo, o meglio, caratterizzata da un dinamismo che le permette di modificarsi – come tutte le lingue – restando comunque se stessa, capace di esistere al di fuori di uno spazio – non è un caso che abbia viaggiato tanto e tanto fedelmente attraverso la diaspora italiana – sa creare con chi la parla un legame particolarissimo, quasi erotico, accostabile – ma attenzione, il paragone è leggero, formale, non ovviamente storico – al caso eccellente del legame di millenni che gli Ebrei hanno avuto, hanno con la loro lingua.

Sono così arrivato, ci sono dentro, alla questione cruciale: In che senso mi sento italiano? È Vanni Pierini che la pone, alla fine del suo Congedo, e se per così dire vi ammicco nel titolo è anche perché mi riconosco pienamente nel suo modo di rispondervi: appunto, per via della lingua. Anche, mi riconosco pienamente nel modo, semplice e diretto, schivo, con cui Vanni Pierini completa la questione: « oltre che per il fatto che lo sono »… Precisazione apparentemente ovvia, ma che in realtà racchiude un mondo di politica e cultura, un buon senso, nel senso più nobile, che vale in campi diversi (dagli emigrati anche clandestini, che oramai ci sono, al Medio Oriente, con Israeliani e Palestinesi, etc.)
[[[Vale la pena di riprodurre nuovamente in questa nota il paragrafo che Pierini dedica alla questione — Congedo, « 3. Su di me », 826-827]

Se dovessi scrivere un libro per comunicare ciò che ho già pensato, non avrei mai il coraggio di cominciarlo. Io scrivo proprio perché non so ancora cosa pensare di un argomento che attira il mio interesse.
Facendolo, il libro mi trasforma, muta ciò che penso.
(Michel Foucault)

Vale anche per me. Nel caso dell’antologia la domanda di cui non conoscevo la risposta era: in che senso mi sento italiano (oltre che per il fatto che lo sono)? Arrivato alla fine del viaggio, se mi costringo a dare una sola risposta, la più vera e intima, la mia attuale risposta è la seguente: mi sento italiano per la lingua, quella che parlo, e molto di più quella che leggo e scrivo. Amo l’italiano, il suo suono e tutto quel po’ che so usare dei suoi ‘armonici’ e dei suoi ‘ritmi’ lessicali e sintattici. Amo la sua letteratura, per l’importanza preponderante che il verso ha avuto in essa. …]]

Tuttavia, se dovessi formulare la domanda, mi verrebbe meglio dire: In che senso mi sento anche italiano? Esprimendo con quell’anche la mia fedeltà agli altri tasselli che compongono la mia identità, la mia storia, o meglio per sfuggire al rischio di incastrare questo termine, identità, al singolare: perché se non credo che tale «identità» sia un male, credo che lo sia, potenzialmente, se impiegata in modo esclusivo. In altri termini, la domanda ti senti italiano, francese, spagnolo etc. o allude alla profonda « ovvietà » di cui sopra (siamo italiani, o francesi, per nascita, passaporto…) o allude a un filo che, insieme ad altri identifica la nostra storia, a seconda dei nostri itinerari (io ad esempio mi sento anche francese, canadese, mediterraneo, ebreo, forse anche un po’ arabo…): in senso assoluto, insomma, la domanda mi sembrerebbe semplicemente priva di senso.

Si dirà che sto giochicchiando con le parole: un po’ perché, proprio nel senso che Vanni Pierini spiega, mi sento effettivamente (anche!) italiano, un po’ perché, ne sono sicuro, lui stesso si troverebbe d’accordo con le affermazioni che ho appena fatto – tuttavia, il fatto che io senta il bisogno di dirlo è forse sintomo di un disagio, di una differenza da discutere, o forse solo un malinteso da chiarire, come si fa tra amici: esiste un « buon » nazionalismo? o viceversa esso è sempre « una bestia molto pericolosa »?

(Precisione ulteriore sul titolo : quella prima persona plurale, « ci sentiamo », non si riferisce tanto agli Italiani in generale – come se volessi trovare una legge che ci accomuna tutti, e che permette di sentirsi questo o quello – quanto, concretamente, a Vanni P. e a me, noi appunto, alle discussioni che abbiamo avuto prima, durante e dopo la scrittura di queste righe, a delimitare il molto che condividiamo, noi due appunto, e quello – ma fecondo, e che può far pensare, che ha fatto e fa pensare me – che ci distingue: due diverse sfumature nel « sentire » un’appartenenza, due fra chissà quante altre…)

Se storicamente ci si contestualizza al XIX secolo, per affermare che alcuni nazionalismi, fra cui il nostro, hanno giocato una funzione positiva, posso essere – è ovvio – d’accordo : ma non per questo, oggi, mi sentirei in modo sia pur minimo «nazionalista», non più di quanto, ad esempio, riconoscendo il ruolo positivo che il protestantesimo ha giocato nella rivoluzione borghese, mi senta protestante. Esiste insomma una differenza, mi sembra, fra l’apprezzamento di un eventuale ruolo del nazionalismo in un determinato contesto storico, e il nazionalismo come «valore», al di là di quel contesto.

Il mio disagio, in questa prospettiva, è dettato non da un astratto
«internazionalismo da salotto» (che detesto), ma da una concreta constatazione sul piano storico: nel passaggio dal XIX al XX secolo, il nazionalismo, i nazionalismi, hanno prodotto essenzialmente guerre e genocidi; quanto a oggi, nel XXI, l’Europa non mi sembra aver bisogno di un ritorno alla nazione. (Capitolo da aprire, che implica altre questioni, altre speranze, altre piaghe: il secondo dopoguerra, il « terzo » mondo, con i suoi movimenti di indipendenza e liberazione nazionale…)

Certo, i Padri fondatori, e alcuni più di altri, meritano riconoscenza: e ben fa Vanni Pierini a difenderli contro l’antiretorica (sommamente retorica) che vorrebbe sempre e comunque « demistificare » il Risorgimento, alla ricerca del filo nero che da quello condurrebbe al fascismo – questo tuttavia non deve far dimenticare che quell’antiretorica è nata come inevitabile reazione a decenni e decenni di retorica nazionalista: che sempre ricostruisce la storia a suo uso e consumo. La situazione, insomma, sarebbe come spesso capita più complessa, sfumata, e non può essere risolta in termini di un secco « si » o « no ». (Di A. M. Banti, contro il cui « antinazionalismo » si dirige principalmente la polemica di Vanni Pierini, non conosco abbastanza da potermi pronunciare: ne ho letto solo un paio di articoli, sul « Manifesto », e – per amore del vero devo confessarlo – non m’erano dispiaciuti).

Tuttavia, anche quest’ultimo punto, non mi spinge, come dire, a simpatizzare con il nazionalismo, e non per ragioni ideologiche, politiche, bensì, più modestamente, private: il ritrovarmi nell’antologia di Vanni Pierini, il sentirmi italiano attraverso il suo collage, nel modo che lui spiega così bene, è un qualcosa per me di intimo, che mi porto appresso trasversalmente, lo ritrovo a Roma, a Trieste, a Palermo, certo, ma anche l’ho ritrovato a New York, Buenos Aires, Montréal, Alessandria d’Egitto, Tangeri, e se a volte implica il riconoscersi come parte di una comunità, questa comunità è invisibile, insaisissable, il suo lasciapassare è le clin d’oeil, un implicito movimento d’ammicco, come quando amici potenziali si riconoscono come tali, ha a che fare con il tempo, più che con lo spazio, uno spazio: insomma, non si può, non si deve difendere, almeno non nel senso pubblico che richiede il sentimento nazionale, per mite e conciliante che sia, e non per viltà o indifferenza, ma perché pubblico non è, non possiede frontiere visibili, fisse, ma sfumate, immateriali, fluttuanti e forse in qualche modo perdute.

Da molti anni so che mi sento a casa con l’Opera, Toto’, Gigi Riva, ma poi anche con les Deschiens, Cervantes, Messi, Dickens (associo i nomi come mi vengono, anche se per alcuni farà un po’ unghie che stridono sulla lavagna). Oggi, dopo il lungo viaggio dentro questa antologia, posso dire con semplicità una cosa che, anch’essa, so da tempo: dei miei diversi sentirmi a casa c’è ne è uno, profondo, sottile, robusto che concerne il mio sentirmi italiano, e ha a che fare, prima di tutto, con la lingua, la relazione che ho con la lingua italiana, nei modi elucidati sopra. Per me, poi (ché ognuno di noi tingerà questa relazione in un modo a lui personale), il filo si fa tanto più forte quanto più si fa sottile: se infatti, nella mia casa quotidiana, nel mio parlare e leggere, molto esistono anche altre lingue, ecco che quando mi metto a scrivere, se come adesso scrivo in italiano…

L’italiano, lingua di un «piccolo» paese, sembra carica di un potere d’attrazione «grande», comparabile a quello di lingue (inglese, francese, spagnolo) parlate da un numero molto più alto di locutori. È il fascino dell’Italia, dei suoi paesaggi e tesori d’arte, si dice – ma forse, più semplicemente, è il fascino «in sé» della lingua, e della sua segreta, mi verrebbe da dire mozartiana (Don Giovanni, Così fan tutte…) musicalità. Da anni, in Italia o all’estero, mi colpisce il numero di persone per cui l’italiano non è la lingua madre, ma quella dei nonni, delle mogli o mariti, o altro (si ricordi l’inizio di questo articolo: … lingua madre, nonna, acquisita…) e che se ne fanno adottare, sino a sentire il desiderio di sceglierla come lingua della propria scrittura, esercizio in cui riescono con un eccellenza superiore alla pur ottima capacità che hanno di parlarla, pronunciarla : perché riescono a «inventare». Noti e meno noti, nativi dell’Albania, dell’Africa, dell’America del Sud, e del Nord, della Turchia (penso semplicemente a quelli che conosco io….), abitando in Italia, o anche no, questi «scrittori», queste « scrittrici », sembrano da un lato adattarsi alla lingua adottiva, e dall’altro elettrificarla, a livello della sintassi, della grammatica, del vocabolorio, di una nuova, salutare linfa – e certo, constato, rifletto a partire da un insieme troppo ridotto di casi per farne una «teoria» : ma mi verrebbe da suggerire che forse si conferma qui, da un originale punto di vista, la straordinaria capacità della nostra lingua di imporsi, e mantenersi, arricchendosi.

Giuseppe A. Samonà

P.S. Siccome di fatto questa è anche una sorta di lettera aperta all’amico Vanni vorrei chiedergli come mai nella sua antologia l’immenso Leopardi (o persino il «patriota» Foscolo) siano, almeno così a me è sembrato, relativamente marginali: non è una critica, anzi, ma una spinta a riflettere (se tale marginalità fosse confermata) sulla natura (uso il termine con qualche ironia) dell’italianità…

 

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Giuseppe A. Samonà
Giuseppe A. Samonà, dottorato in storia delle religioni, ha pubblicato studi sul Vicino Oriente antico e sull’America indiana al tempo della Conquista. 'Quelle cose scomparse, parole' (Ilisso, 2004, con postfazione di Filippo La Porta) è la sua prima opera di narrativa. Fa parte de 'La terra della prosa', antologia di narratori italiani degli anni Zero a cura di Andrea Cortellessa (L’Orma 2014). 'I fannulloni nella valle fertile', di Albert Cossery, è la sua ultima traduzione dal francese (Einaudi 2016, con un saggio introduttivo). È stato cofondatore di Altritaliani, ed è codirettore della rivista transculturale 'ViceVersa'. Ha vissuto e insegnato a Roma, New York, Montréal e Parigi, dove vive e insegna attualmente. Non ha mai vissuto a Buenos Aires, né a Montevideo – ma sogna un giorno di poterlo fare.

5 Commentaires

  1. « Oh mia patria » di Vanni Pierini. In che senso ‘ci sentiamo’ italiani.
    Caro Giuseppe,

    va bene, non voglio aggiungere parole inutili e, magari male, ma già scritte. Però, dopo averti di nuovo ringraziato con vero affetto per tutto, al ritorno da Torino, dove ho presentato ancora una volta l’antologìa, qualcosa voglio precisarti.

    Sulla ‘questione nazionale’ e ‘identitaria’ c’è credo una vera differenza tra noi, piuttosto netta, che non mi turba affatto, del resto. Tanto per aumentare la tua inquietudine: io, a differenza di te, (ma anche dei miei figli), mi sento ‘italiano e basta’, sono lieto di esserlo perché mi piace la lingua che un lungo lavorìo storico ha prodotto, mi piace la letteratura che con quella lingua si è espressa nel corso di circa nove secoli, mi entusiasma il fatto che quella letteratura sia stata, per la gran parte, poetica, e che la prosa sia stata soprattutto saggistica, filosofica, storica, giuridica, tecnica, scientifica, religiosa ecc, non narrativa. Dopo questa (ricorderai, nel congedo volutamente ‘unica’ in quanto primaria) risposta però, con altrettanta semplicità ti assicuro che per me questa è la ‘ovvia’ premessa (non l’ostacolo da rimuovere) dell’ incontro confronto arricchimento scontro contesa integrazione o che altro con tutte le altre culture umane passate e presenti, locali e globali, trasnazionali, trascontinentali, meticce, transculturali o che altro.

    Per esempio: amo la storia sacra e il dio raffigurato nei dipinti e negli affreschi e non mi ritrovo nei simbolismi decorativi del dio irrappresentabile ebraico o dell’islam; ma se non partissi dal riconoscere il mio contenuto culturale e dal volerlo proporre come ‘canone universale’, come potrei riconoscere (come invece riconosco integralmente e difendo) il diritto perfettamente equivalente di proporre come canone universale l’irrappresentabilità del divino? So, però, che cercherei con tutte le forze cultutrali e dialettiche di difendere e diffondere la mia visione, sempre prontissimo, se ci riesco, a capire se e quanto altre anche radicalmente differenti culture mi possano far mutare opinione e/o ‘sentire’, o lo abbiano già fatto e mi manchi solo di riconoscerlo. Insomma io non sono e non mi sento un arbitro nella partita della convivenza umana, ma un giocatore con una precisa casacca, che rispettando regole condivise con lealtà e apertura di spirito, si augura tuttavia di vincere, o almeno, fuori dalla metafora sportiva e con quel che sta accadendo nel mondo, di sopravvivere. Se non riconosciamo la legittimità di questo orgoglio identitario culturale, perché mai qualcuno dovrebbe considerarci attendibili e interessarsi a ciò che abbiamo da portare al silos della civiltà umana?

    Sul nazionalismo ho scritto: a) che le nazioni sono formazioni storiche, la cui vita storica e la cui trasformazione e/o scomparsa appaiono caratteristiche del tutto ovvie e prevedibili; b) che quando esso si manifestasse unitamente a volontà di conquista e a presunzione di superiorità, non si tratterebbe più, in effetti, di nazionalismo, ma di razzismo e/o di imperialismo, da combattere sempre con ogni mezzo, secondo quanto suggerito dalle contingenze storiche. Mi sembra chiaro, ma sento che tu temi che io possa concedere per vie cavillose e formalistiche qualche spazio al lato oscuro della forza. Io credo fermamente di no, e vorrei rassicurarti, ma tant’è. Queste differenze tra me e te, ne sono convinto, sono anche differenze anagrafiche: sia per il desiderio crescente che i vecchi hanno di passeggiare in un ‘orto della memoria’ che non venga totalmente stravolto e cancellato dal ‘divenire’; sia per le specifiche fòle (così a me paiono, stringi stringi) democraticiste/universaliste/umanitariste/behavioriste/comunicazioniste/compassionevoliste/pacifiste -insomma codici politically correct di un pensiero debole, nominalistico e scaramantico/vittimista- che hanno accompagnato e rispecchiato la decadenza (culturale ma non solo) occidentale dell’ultimo quarantennio. Tu hai respirato (e probabilmente anche criticato) questo clima nel corso della tua formazione culturale, e benché non ti attribuisca minimamente la condivisione di quelle che ho definito fòle, non posso non notare quanto diverso sia stato tale clima da quello che ho vissuto io. Insomma, a ognuno le sue fòle di partenza, da difendere, verificare e magari rinnegare, ma mai per convenienza o quieto vivere. (Se puoi e vuoi, ti prego di rileggere e di rileggere e di rileggere ‘La poesia della tradizione’ e ‘Saluti e auguri’ di PPP, poi ne parliamo assieme).

    L’unica osservazione di merito critica (le righe sopra non sono una critica, ma un tentativo veloce di perimetrazione del reciproco dissenso) che posso fare alla tua bella e intelligente e generosa nota di lettura è che non ti avventuri sul terreno specifico della critica letteraria e della concezione della poesia, aperte dalla compresenza, in ciascun periodo, di autori ‘canonici’ e di (molti) autori -e testi- quasi o totalmente dimenticati. Non l’ho fatto neppure io se non nel secondo paragrafo del congedo, del resto. Volevo solo segnalarti l’aspetto, magari perché tu possa, in un secondo momento, interpellare o far intervenire qualche poeta o critico francese sulla questione.

    E ora davvero: basta. Passa all’azione e tiemmi al corrente. Un abbraccio, e ancora grazie di tutto. Vanni


    PS Su Leopardi e Foscolo ecco le mie risposte:

    – ci sono abbastanza, mi sembra, e tutt’e due tornano anche, nel ‘carosello italiano’ finale;

    – può essere un effetto dovuto all’ampliamento enorme del ‘portfolio’ autori e testi;

    – nel caso di Leopardi la sua cooptazione tra i padri della patria è dovuta alle poesie giovanili che sono anche nell’antologia. Dubito fortemente che se avessero, i suoi contemporanei, letto alcune lettere, alcuni pensieri, alcuni brani (soprattutto Palinodia, Nuovi credenti e Batracomiomachia) avrebbe resistito il Leopardi patriota disinvoltamente assoldato dal De Sanctis nella compagnia liberale, ottimista, progressista e proto positivista. Leopardi detestava i venditori di felicità sociale, ed era (contemporaneamente!) troppo illuminista, troppo aristocratico, troppo materialista, troppo prenicciano e troppo implicitamente democratico radicale per essere mai liberal-progressista;

    – Foscolo è poeta soldato e fiero, lodatore non servile e critico del bonapartismo; ma il suo patriottismo è ancora largamente mitico-letterario, anche se importantissimo per la costruzione di un sentimento culturale identitario nel ceto altoborghese e liberale moderato dell’Italia settentrionale. Poi, però, si scopre uno Scalvini qualsiasi che, oltre ad essere un buon poeta, è il primo a dire, pochi anni dopo, che i signori non bastano, ci vuole il braccio poderoso della plebe…;

    – per concludere: i giganti restano alla fine tali, ma in questa antologia non sono circondati dal vuoto pneumatico, e quindi il confronto li ‘ri-dimensiona’, letteralmente. V.

    • « Oh mia patria » di Vanni Pierini. In che senso ‘ci sentiamo’ italiani.
      Vanni caro,

      non so dirti il piacere che mi fa leggerti: mi rassicuri, e mi fai pensare, altro che inquietudine… Sono io, adesso, a chiederti un po’ di tempo, prima di rispondere. Ma subito voglio, a caldo, dirti una cosa: riconosco le differenze, che metti in luce cosi’ finemente, eppure…. sono anche d’accordo con tutto quel che dici. E non per una specie di banale « volemose bene », che poco mi appartiene: ma perché la mia « posizione » non è una, non è frutto di un apriori ideologico, è frutto di un percorso sofferto, mobile, e che si muove ancora. Lo stesso vale per i miei lati « altri », figli anche di azzardi di vita, e non di una scelta volontaria (anche se poi uno potrebbe interrogarsi sull’esitenza dell' »azzardo »…): mondo ispanico ed ebraico, comunque, sono bagaglio familiare, ereditato, la francofonia… anche : la famiglia che, come si dice, ho creato… Così, questa mia posizione mobile permane inquieta, cerca: e trova in te un nobilissimo interlocutore. Mia moglie dice che si puo’ discutere solo con chi è già d’accordo con te, in qualche modo almeno, altrimenti è inutile. Sono d’accordo con lei..
      .
      Ma ecco che con te mi succede una cosa rara, e preziosa: magari non sono d’accordo con te, ma proprio dove non sono d’accordo mi viene da riflettere, da interrogarmi, mi sembra di imparare qualcosa, e qualcosa si muove, di nuovo… (forse non si capisce un cacchio ! provero’ a spiegarmi meglio, più in là). Mi piace, ecco, quel che dici, come lo dici… e il fatto che se ne riparli proprio in questo momento.

      Così, concludo con una confessione, legata a quello che il nostro amico Lamberto definisce « un italico vizio » : adoro il calcio, e quasi sempre, ogni volta che gioca l’Italia, mi ritrovo a « tifarla » con passione (quasi : non fu così ad esempio nel 2010, il desiderio di veder sconfitta l’Italia berlusconiana fu più forte, e la mia Italia fu… l’Uruguay !). Pure, non credo si tratti di nazionalismo, ma di nuovo di memoria privata : più che l’Italia, infatti, si muove in me, con una sorta di regressione infantile, l’epoca in cui andavo allo stadio con mio zio o guardavo insieme a mio padre le partite alla televisione (adorava anche lui il calcio, ma era troppo pigro per andare allo stadio!) – di fatto, il più delle volte, le partite invece che con altri italiani (quasi che appunto temessi di ritrovarmi intrappolato nell’Italia « vera », quella in cui esistono ad esempio Libero e Il Giornale, e i loro osceni titoli dopo la vittoria contro la Germania, che vergogna !), le partite le guardo con i miei amici di qui, argentini, uruguayani, francesi, tedeschi, nell’immutato tripudio di pizze, noccioline, birre, come la finale di domenica scorsa, e mal me ne incolse… Ma è un fatto che palpito, mi arrabbio, son contento, mi metto di persino di cattivo umore : che dire di questo ? (Molt’altro probabilmente, magari in un’altra occasione).

      Un abbraccio, e grazie, molto, anche a te. Gius

  2. « Oh mia patria ». In che senso ‘ci sentiamo’ italiani.
    Al di là della giustezza e finezza dell’analisi in sé, questo testo di Giuseppe ha un valore emblematico e dimostrativo della complessità e difficoltà dell’essere italiani.
    Un’antologia inimmaginabile in una delle lingue e culture nominate nella “recensione” – la francese, l’inglese, la spagnola. Nell’interpretare l’opera di Vanni Pierini, Giuseppe rivela a che punto giunga la specificità della cultura antropologica dell’Italia che, con una lingua che precede di cinque secoli la nascita dello Stato-nazione, è da considerarsi, come io la considero,“a-nazionale”. Questo stato e condizione anomali fanno dell’Italia la società che meglio anticipa e precorre la lenta dissoluzione della “nazionalità” in corso nelle suddette culture “forti”.
    Giacomo Leopardi, italiano cresciuto “in vitro”, in contatto atipico con la comunità nazionale del suo tempo, aveva colto questo aspetto della dinamica storica e il fatto che, come nota Giuseppe, Vanni lo abbia trattato in modo “marginale”, è forse sintomatico di un disagio patrio.

    • « Oh mia patria ». In che senso ‘ci sentiamo’ italiani.
      Caro Lamberto,
      Con un sintomatico qui pro quo informatico Vanni rispondeva a me ignorando che nello stesso momento rispondevi anche tu: e nel suo appunto su Leopardi, in certo senso, rispondeva a entrambi. Del resto anch’io, mentre rispondevo a Vanni, ignoravo il tuo messaggio, che vedo solo adesso; eppure – come puoi vedere subito sopra – ti chiamavo affettuosamente in causa. Piccoli cortocircuiti, significativi, anche, della difficoltà di cui parli tu, e che mi fanno venire in mente un’ultima osservazione: Vanni evoca, per spiegare le nostre diverse sensibilità, un elemento generazionale, come dire, un fattore tempo. Leggendo il tuo commento, e riconoscendo su certi aspetti una sensibilità « a-nazionale » che mi sento vicinissima (eppure generazionalmente sei « dalla parte » di Vanni, cui mi sento vicinissimo per altre cose), penso che bisognerebbe tirare in ballo anche il fattore spazio: dove abbiamo vissuto? e come? Il « nostro » essere emigrati, quel « nostro » Canada geneticamente « a-nazionale »…

      • « Oh mia patria ». In che senso ‘ci sentiamo’ italiani.
        Caro Giu,
        Il tempo. Lo spazio. Ma non sono la stessa cosa? Accade nello spazio-tempo della vita che uno fissi una certa cosa, un colore, un viso, un fatto, voci e ci si fissi. Un altro, altri.
        Intendo e sento quello che dice Vanni, ma la mia Italia è « fuori d’Italia », comunque memoria e sarebbe stato così, credo, anche se non mi fossi mosso da lì. E poi lo sport non mi aiuta e della « letteratura » uso una piccola parte, circa dieci tra giganti e nani. Eppure sono italiano!

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