Joyce Lussu: poesia e rifiuto del disumano

Recensione del libro ‘Portrait’, l’autobiografia di Joyce Lussu, scrittrice, traduttrice e partigiana italiana (Ed. Asino d’oro, Febbraio 2012).

«Sono nato nel 1902/a 19 anni studiavo a Mosca//all’università comunista/a 49 ero a Mosca di nuovo/ospite del comitato centrale/del partito comunista/e dall’età di 14 anni/faccio il poeta (…) ho dormito in prigioni e anche in alberghi di lusso/ho sofferto la fame compreso lo sciopero della fame/e non c’è quasi pietanza/che non abbia assaggiata/quando avevo trent’anni hanno chiesto//la mia impiccagione/a 48 mi hanno proposto/per la medaglia della Pace/e me l’hanno data (…) sono stato pazzamente geloso delle donne ch’ho amato/non ho invidiato nemmeno Charlot (…) ho bevuto ma non sono stato un bevitore/ho sempre guadagnato il mio pane/col sudore della mia fronte/che felicità (…) e dal ’21 non sono entrato/in certi luoghi frequentati dai più//la moschea la sinagoga la chiesa/il tempio i maghi le fattucchiere/ma mi è capitato/di far leggere la mia sorte/nei fondi di caffè (…) non ho camminato per le vie sotto gli aerei in picchiata/ma verso i sessant’anni mi sono innamorato».

Questi sono alcuni versi di una famosa poesia di Nazim Hikmet, Autobiografia, scritta nel 1962, un anno prima della morte, tradotta da Joyce Lussu.

Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, da tutti conosciuta con il nome di Joyce Lussu, come Hikmet non era una propriamente una letterata: «Hikmet non era un letterato: – scriveva la Lussu nell’introduzione della raccolta di poesie del grande poeta turco, da lei tradotte, edita dalla Newton Compton nel 1978 – il letterato si forma con lo studio dei predecessori, con l’accumulazione libresca ; a Hikmet questo non interessava. La sua fonte di ispirazione non erano gli altri scrittori, ma la coscienza storica e la lotta politica; e non si rivolgeva a critici e scrittori ma al popolo del suo paese e di tutti i paesi , anche agli analfabeti».

LUSSU_copertina.jpgIn questi giorni è stato pubblicato, da L’Asino d’Oro Edizioni, ‘Portrait’, l’autobiografia di Joyce Lussu. Il libro, che inaugura la nuova collana di narrativa Omero, diretta da Maria Gazzetti, si apre con una emozionante prefazione di Giulia Ingrao. Anche la Ingrao come Joyce Lussu e come Hikmet ha condotto la lotta al disumano dai mille volti in una prassi di rifiuto continuo che mutava ogni volta che il nemico da combattere si affacciava alla storia con un’ennesima tragica maschera: fascismo, nazismo, comunismo staliniano, cattocomunismo, apparati di partito, tentativi subdoli di addomesticare istanze ed esigenze identitarie, ecc..

Joyce Lussu, che quest’anno compirebbe cent’anni, in questo ‘ritratto’ racconta in modo semplice la sua storia e la storia dell’Italia del ventesimo secolo. Ci racconta del nonno latifondista che negli anni venti assoldava le squadracce fasciste per picchiare e uccidere i contadini che chiedevano i loro diritti; racconta del padre e del fratello pestati a sangue da manipoli di sgherri in camicia nera; racconta del suo amore nato improvviso ed impetuoso per l’uomo della sua vita: «L’amore era stato immediato e totale (…) Nella deflagrazione innescata dal primo sguardo c’era già tutto: dall’intensa attrazione fisica al sincero rispetto, dal bisogno di affetto alla passione politica».

Emilio e Joyce Lussu

Lui non è un uomo qualunque, è Emilio Lussu: fondatore già nel 1919 del Partito Sardo d’Azione, diverrà, dopo il settembre del ’43, il leader del Partito d’Azione e alla fine della guerra confluirà in un Psi, non inquinato da craxismo, ricoprendo alte cariche istituzionali.

È con quest’uomo che Joyce si confronta; «Attraverso di lui e con lui – sottolinea la Ingrao –conoscerà il mondo, entrerà nel mondo». È con quest’uomo accanto che, nei giorni che vedono la liberazione di Roma, mette al mondo un figlio; è da quest’uomo che, dopo la lotta partigiana, cercherà la giusta distanza per essere sempre più Joyce e sempre meno Lussu: «Gli piaceva la mia compagnia perché facevamo le stesse cose; se fossi rimasta in casa ad aspettarlo lo avrei annoiato».

Joyce durante tutta la sua burrascosa vita ha visto e vissuto in prima persona la colonizzazione del più violento sul meno violento ora, deposte le armi, non può non vedere e ribellarsi ai «compagni che si professano marxisti-leninisti ortodossi, ma che in realtà disprezzano e sottovalutano le donne».

Anche Joyce non è una donna qualunque, lo si vede quando racconta i suoi pensieri e le sue domande senza risposta dopo la nascita del primo figlio: «Come aveva vissuto il passaggio dal caldo e scuro alveo materno al grande mondo dell’aria e della luce, dei pericoli e dell’insicurezza? Di cosa aveva bisogno oltre al cibo…? (…) Che cosa dovevo fare per proteggerlo dall’infelicità?».

È inevitabile che una donna con questo temperamento non appena entrata nella «legalità repubblicana» si senta soffocare nella negazione della propria identità, soprattutto quando viene etichettata come «la moglie di Emilio Lussu» o come «la consorte di sua eccellenza».

Il poeta Nazim Hikmet e Joyce Lussu, Stoccolma 1958

E trova una via d’uscita: inizia a cercare e a tradurre i poeti rivoluzionari del terzo mondo, utilizzando come ponte le varie lingue occidentali che conosce, ma soprattutto instaurando un rapporto umano diretto ed intenso con i poeti del Sud del mondo che incontra di volta in volta nei suoi rocamboleschi viaggi.

Viene naturale a Joyce il rapporto profondo con queste rare persone che avevano sofferto e rifiutato, come lei donna, la colonizzazione della mente.

La consanguineità di pensiero con poeti ribelli, come il turco Nazim Hikmet o il curdo Gegherxhìn o l’angolano Agostinho Neto, le permette di intendere il senso profondo immerso nei loro testi salvati dalla disumanizzante desolazione che li accerchiava.

Soltanto chi, come Joyce Lussu, aveva lottato, rischiando anche la vita per salvare la propria umanità e la propria identità femminile, poteva giungere ad una conoscenza intima di queste poetiche tale da permettergli di tradurre quelle voci salvate dall’orrore di guerre e prigioni, per poterle poi donare ad altri esseri umani come un pane fragrante.

Gian Carlo Zanon

 

NAZIM HIKMET
(1902 Salonicco – 1963 Mosca)
POESIE D’AMORE
Traduzione di Joyce Lussu
Mondadori 1991

Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello
che vorrei dirti di più bello
non te l’ho ancora detto.

Article précédentLucio Dalla ci lascia, a modo suo
Article suivantL’Italia non è un paese per vecchi.