Italia De Profundis, di Giuseppe Genna

Sono seduto sulla mia motocicletta. Un cielo slavato si specchia nel blu metallizzato del serbatoio della mia compagna meccanica. Di fronte a me l’ingresso di un famoso albergo del primo arrondissement: 3, Rue De Castiglione. Aspetto che la sfilata sia terminata per recuperare le memory card dei fotografi per i quali lavoro, districarmi nel labirinto umano profumatissimo che popola i défilé di moda, strisciare, tra un sorry e un pardon, cercando di tendere al massimo il mio collo alla ricerca di quelle persone che spiccano in quanto vestono gli abiti meno appariscenti e costosi. Finalmente li trovo, i post-it gialli sono già pronti, con il nome del fotografo e il nome della sfilata. Li ho, li ho! Apro la custodia atta a contenere questo tipo di oggetti, in questo momento preziosissimi, li infilo con cura maniacale, attento a non farli cadere tra i piedi alloggiati in scarpe bizzarre (cadrebbe, in seguito, la mia testa), richiudo l’astuccio, apro la borsa e infilo dentro il tutto, palpo dall’esterno lo zaino per assicurarmi che sia ben dentro: sono pronto a partire.

moto.jpgVado verso la moto a testa bassa, ho già le chiavi strette in pugno, seleziono quella principale: da lontano, nella miopia, mi accorgo che c’è un oggetto sul serbatoio. Mi avvicino. Metto a fuoco. Diavolo! Ho dimenticato il libro aperto, appoggiato all’incontrario sulla moto. Nella fretta devo averlo appoggiato lì, distrattamente. Per fortuna nessuno lo ha visto. Un sorriso. Ma a chi interesserebbe Italia De Profundis in questo contesto?! Amarezza. Riapro lo zaino, piazzo il segnalibro, ripongo con cura il testo in fondo al sacco; tocco, con un istinto che riconosco maniacale, la tasca dove ho riposto le memory card, per accertarmi, ancora una volta, che non si siano volatilizzate. Sono lì. Parto.

Il traffico parigino è snervante, solo apparentemente ordinato, per chi proviene da Napoli. Faccio una serie di infrazioni regolarizzate ad opera d’arte dall’uso delle frecce. Un sorpasso a destra, dieci metri di corsia preferenziale, salgo sul marciapiede e ci parcheggio sopra, come molti. Bloccasterzo. Corro in albergo: “Sono qui, ecco l’ultima sfilata!”, dico aprendo la porta. “Bene, bene. Ragazzi: è arrivato Dior: a lavoro!”. Vedo un manipolo di uomini alzarsi dai sofà della hall e dividersi il lavoro, una piccola schiera di leggendari eroi del fashion alle prese con la nuova tendenza. Loro sono i primi a vedere le ultime creazioni dei geni del colore e delle scollature, saranno loro a vendere a caro prezzo quegli scatti alle più importanti riviste di moda, ai giornali, ai siti. Molti consumatori attenderanno con ansia l’indomani per vedere cosa ha combinato questo o quello stilista: “Tutto ciò è incredibile” “Ahahah, ecco che salta fuori il verde un’altra volta” “Questa volta ha osato troppo” “Ma che dici, è un genio”. Le voci nella sala si accavallano in un caos babelico, provo ad organizzarle, ad ordinarle, penso: “Io odio scrivere i dialoghi letterari. Mi si crea un fastidio fisico, mi sento in colpa verso non so cosa. […] Questo non è il linguaggio umano, è il linguaggio dei robot. È un’astrazione comunicativa folle, che emenda da se stessa la possibilità, sempre realizzata, del disordine, del caos, della sovrapposizione, dell’equivoco. […] Quale terrore nascondiamo con questa Lineare C?”. [[Giuseppe Genna, Italia De Profundis, pag. 294-295.]]

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Implodo. Credo di essere affetto da un tumore verbale, estremamente contagioso. Prenderei le pagine della mia impolverata cultura, le straccerei e le lancerei in aria come mille coriandoli monocromo: bianco e nero, a righe. Scriverei a lettere cubitali le mie riminiscenze di latino e greco, avrei voglia di stupire questi quattro modaioli da strapazzo con i miei riferimenti colti e pluridisciplinari. Siamo i figli dei figli. I nipoti del sessantotto. Mio nonno è morto giovane, ma prima di lui si sono spenti, incanutiti, i suoi ideali. Ma quale prospettiva?

Dopo dieci secondi di catatonia rimetto la custodia vuota nello zaino e mi dirigo, rapido, alla moto. Se mi sbrigo avrò circa quindici minuti per leggere il mio libro, prima che finisca la prossima sfilata. Eccomi. Che chic! Quai Malaquai: Kenzo. Sole, libro. Avido, scorro le pagine ruvide dell’edizione Minimum Fax, 348 pagine, digerisco la prosa fibrosa di Genna. Squilla il cellulare. Ecco la possibilità di un dialogo hitleriano, organizzato e rigoroso. No.

Ehi Umberto… Come stai… Bene, bene, grazie… Sì! Hai letto la mia mail?… Si, l’ho cominciato qualche giorno fa… Avevi ragione, è sorprendente… Mi piace il modo in cui si serve del linguaggio, lo forza dal interno, lo piega a suo piacimento… Eheheh, sì, a volte si spezza… Per il momento non so dirti altro… Dobbiamo assolutamente parlarne… Certo che lo mettiamo in rubrica, ci mancherebbe altro!… Ciao, a dopo, ciao-cià-cià…

Eccoli che escono, gli stessi figurini dell’altra sfilata, gli stessi della prossima. Li osservo mentre ronzano nella mia testa le parole virulente di Giuseppe Genna. Un quadro, quello che descrive, agghiacciante e tristemente realista. La prosa si scaglia contro l’inconsistenza del reale, contro quell’immaginario, in cui ci caliamo, che coltiviamo. Il presente è puro desiderio reiterato all’infinito (io desidero desiderare), nell’erronea credenza che ciò sia reale. Viviamo al di sopra delle nostre possibilità, senza rendercene conto. We can. Creiamo una bolla economica che tra una decina di anni esploderà e lì, lì saranno guai. La società che popoliamo non ha più classi, ma si organizza in un centro e una periferia, e noi tutti siamo dei provinciali, illusi di essere ancora borghesi. Nello svolgersi del racconto, di quest’invocazione, di questa osservazione senza pietà della nostra Italia, Genna sonda le profondità più intime dell’io, che diventa me, seguendo il cammino di alienazione che sta portando, lentamente, la nostra specie ad un nuovo stadio: l’anti-umano. Nello stesso momento Genna fa un’altra operazione, simile a quella che fa con la propria natura, indaga il romanzo, la sua struttura, la sua natura, e forza all’inverosimile le gabbie del racconto intimista e di formazione.

Pensando confusamente ai pregi e ai difetti di quest’opera unica che mi trovo tra le mani giungo alle 19, l’ora dell’ultima sfilata. Tutti sono esausti, già si parla dell’albergo dove ci sarà il ricevimento per la sera stessa. Con la solita attitudine nevrotica prendo e consegno le card. Esausto, dopo aver percorso più di ottanta chilometri nella zona più centrale della città merito una birra fredda e qualche stuzzichino. So già dove andare: un bar gestito da italiani, j’en ai marre de ces français. Parcheggio la moto sul marciapiede, nuovamente. Entro nel locale, le luci sono basse: inutile provare a leggere. Mi avvicino al bancone del bar, saluto quel paio di clienti fissi che conosco di vista. Marisa è al bancone che serve da bere. La conosco da qualche tempo, questo è il primo bar a cui mi sono affezionato venendo a Parigi. Faccio una smorfia con il viso, tanto per farle capire che ho avuto una giornata lunga e difficile. Poche parole di circostanza. Una birra, per favore. Quando ho il calice eretto di fronte a me comincio ad accarezzarlo e a girarlo. Lo afferro lentamente e lo porto alle labbra, mando giù una lunga sorsata, sento scendere il liquido annacquato e frizzante lungo l’esofago, mi sembra una liberazione. Marisa è una buona lettrice, attenta e perspicace. Ho cominciato a leggere Italia De Profundis, conosci? Con la mano appoggiata sulla spillatrice si ferma un attimo a pensare. Genna, non è vero? Sì. No, non l’ho letto. Ecco l’occasione per trovare una nuova proselita. Dovresti leggerlo, è geniale (dico, calcando l’espressione francese c’est génial). Alla domanda che aspettavo: di che parla? assumo un’aria di mistero: come sei messa? Hai cinque minuti? Lei fa sì con la testa, allora prendo il mio zaino, che sciattamente avevo lasciato cadere sedendomi al bancone, e pesco il libro. Comincio a leggerle alcune pagine ma non vedo alcuna espressione dipingersi sul suo volto. Comincio la mia arringa, ma nulla! Provo con lo stile: una smorfia d’insofferenza. Marisa studia filosofia e legge principalmente romanzi di formazione, ottocenteschi. Capisci la rivoluzione che si attua in queste pagine? E’ la prima volta che leggo un libro di tale onestà e tale potenza linguistica… Sì, ma alla fine è sempre il romanzo-denuncia, non se ne esce, mi sono annoiata di questi romanzi, per carità: sacrosanti… ma letti e riletti… Ho bisogno di qualcosa che mi apra nuove prospettive, qualcosa che mi suggerisca un’idea, una visione. Ma la mia arma è già pronta: La novità è il linguaggio, lo stile con il quale si mettono in campo le problematiche, non si può sfuggire, oggigiorno, da un’arte che interroga se stessa e che si sforzi di valicare i limiti a lei imposti. Non sembra convinta di quanto le sto dicendo e mi guarda con quell’aria bonaria a cui sono abituato, la stessa di tutte le volte in cui arrivo eccitato al suo bancone. Comincio a tessere le lodi di Genna, a parlare dell’anti-umano, del nuovo prospetto della società, prendo in continuazione pagine esplosive e gliele leggo – perplessità nei suoi occhi – mi sento un pazzo che prova a convincere un camerata di un altro rione del manicomio, il rione filosofico. Un nuovo cliente arriva al bancone, Marisa viene chiamata al suo dovere e, prima di lasciarmi, mi lancia un’occhiata obliqua e mi dice comunque leggerò il libro e ne riparliamo.

“Un pazzo è colui che fa sempre le stesse cose ma credendo di ottenere risultati diversi”. (Einstein)

Carlo Baghetti

ATTENZIONE! Luoghi, persone, fatti sono frutto di invenzione. Anche questa è finzione.

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