Follia e potere : Vite da scarto

A 30 anni dalla morte di Franco Basaglia, ripercorriamo ed analizziamo con il sociologo Alessio Maione, il percorso storico e di pensiero sul rapporto follia e potere in Italia e non solo, attraverso la nascita, vita e morte delle strutture manicomiali. Quali ideologie, quali considerazioni dietro l’esistenza e la vita di queste strutture ancora oggi oggetto di controversia tra chi guarda all’inserimento e cura del sofferente e chi guarda alla sicurezza collettiva.

“Il potere separa ed esclude dalla società”, così Zygmunt Bauman sintetizza il metodo usato dal potere per separare ed escludere dalla società categorie sempre più ampie e diverse di devianti.

Probabilmente, il modo migliore per ricordare Franco Basaglia non è quello di attribuire meriti e demeriti alla sua personalità o alle sue battaglie culturali e politiche. Né l’unico modo per farlo è quello di limitarsi a “lasciar parlare” le pratiche che sono scaturite direttamente dalla sua opera, ad esempio descrivendo il funzionamento e l’operatività dei servizi di salute mentale della città di Trieste (ritenuti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità un’esperienza modello), dove Basaglia ha operato per un decennio. L’enfasi sul “primato” della pratica (o meglio: delle pratiche), nel campo della psichiatria e della salute mentale, è una costante nella narrazione della rivoluzione psichiatrica italiana da parte dei protagonisti delle lotte anti-istituzionali che culminarono – nel maggio del 1978 – con l’approvazione della legge 180 (impropriamente detta “legge Basaglia”).

 

Così come quella dei loro avversari, che si incentra sulle mancate realizzazioni della 180 (certamente da non attribuire a carenze della legge, quanto piuttosto a fattori di natura politico-amministrativa).
Forse un approccio storico-sociologico consente di guardare da una prospettiva sufficientemente ampia – ferma restando la difficoltà di affrontare fenomeni macro-sociali pluri-determinati e ancora troppo recenti, per poter essere trattati da una storiografia non orientata in primis da istanze ideologiche – alle complesse questioni implicate nel rapporto potere-follia. E di valutare appieno la portata dell’eredità di Basaglia.

Max Weber analizza la categoria sociologica del potere in modo sistematico, distinguendola da quella di autorità sulla base del concetto di legittimità. Il potere diventa autorità se è legittimo, e si distingue – idealmente – in base al tipo di legittimità su cui si fonda: tradizionale, carismatica, razionale o burocratico-legale. Le astrazioni teoriche di Weber scompongono il concetto fino a fargli definire elementarmente il potere come probabilità di un individuo o un gruppo, nell’azione sociale, di conseguire un obiettivo anche di fronte a un’opposizione.

Ma così, paradossalmente, la categoria cessa di essere astrattamente sociologica, “idealtipica” (come dice Weber), e finisce per essere suscettibile di descrivere molto concretamente la realtà dell’esclusione sociale: a partire dell’inizio del XX° secolo, nella società occidentale – sempre più caratterizzata dalla secolarizzazione, l’individualismo e la competizione – escluso è chi non è in grado di conseguire alcun successo nell’arena sociale. Dunque precisamente chi non dispone di potere a sufficienza.

Ma chi altro è il folle – che la psichiatria per la prima volta nel secolo precedente ha definito malato mentale – se non colui che in massimo grado ha perso ogni potere, ogni capacità di conseguire scopi secondo valori, dunque diritti?

E’ significativo che nella letteratura e nelle pratiche di riabilitazione psichiatrica sia oggi universalmente utilizzato proprio il termine empowerment per individuare obiettivi e indicatori di esito delle attività.

weber.gifChe la psichiatria e di conseguenza il ruolo sociale delle persone psichiatrizzate siano strutturalmente embricati con le questioni del potere è evidente se si considerano alcune delle tesi foucaultiane esposte in Il potere psichiatrico, corso al Collège de France (1973-1974), fondamentale opera tradotta in italiano solo nel 2004. L’autore vi illustra la genealogia di quello che chiama «potere di disciplina». Vi descrive tra l’altro esempi storici (il mondo monastico, l’esercito, le università, le scuole di formazione ai mestieri) che illustrano le modalità attraverso cui le società moderne si dotano di dispositivi normalizzanti, basati su procedure (scritture, controlli centralizzati, sanzioni precise, regolamentazioni) che definiscono il proprio bersaglio in ultima istanza nel corpo dell’individuo.

Ogni forma di potere disciplinare avrà un proprio residuo irriducibile – la devianza – che darà luogo a specifici correttivi ortopedizzanti. La forma precedente – con cui il potere disciplinare è stato storicamente a lungo intrecciato – è definita «potere di sovranità» ed è basata su scambi asimmetrici tra sovrano e gruppi (ma non individui).

Le pratiche psichiatriche rappresentano il dispositivo disciplinare competente sulla più aspecifica e radicale delle devianze: la malattia mentale, da intendere come residuo dei residui. Il manicomio – che nel corso del XIX consente alla nuova disciplina psichiatrica di acquisire dignità scientifica e autonomia accademica, grazie alle possibilità di osservazione sistematica di una casistica ampia ed eterogenea – costituirà la struttura istituzionale, sia materiale che simbolica, del dispositivo disciplinare devoluto al trattamento della follia.

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L’analisi delle complesse vicende storico-culturali che hanno determinato la nascita del manicomio in Europa (di cui parlano Foucault nella Storia della Follia e Dörner in Il borghese e il folle. Storia sociale della psichiatria) in sostanza conferma la validità del modello sincronico-sociologico dell’istituzione totale di Goffmann, approfondito poi per lo specifico psichiatrico dai coniugi Basaglia (Franca Ongaro Basaglia è stata la traduttrice dell’edizione italiana di Asylums).

Nella sua forma tardo-settecentesca e ottocentesca, il manicomio nasce dall’ambigua commistione di un mandato sociale custodialistico e di uno curativo, improntando di sé la nascente scienza psichiatrica, grazie alle affinità elettive esistenti tra le proprie finalità, la moderna concezione mercantilistica dell’homo œconomicus e la nuova sensibilità sociale riguardo ai temi della povertà e della follia, in una società tendenzialmente distruttiva di rapporti sociali paternalistici e Weltanschauungen tradizionali.

Ben presto, il manicomio subordina le proprie istanze filantropiche e poi medicali (di matrice rispettivamente illuministica e positivistica) alle esigenze di un’istituzione che risponde all’imperativo primario della propria sopravvivenza in quanto spazio concentrazionario di mera custodia di individui a vario titolo indesiderati.

Esemplare è la vicenda del manicomio di Aversa. Prima istituzione del genere in Italia, la Real Casa de’ Matti nasce nel 1813 sotto l’impulso riformatore, modernizzante e laicizzante dei governi giacobini dell’Italia meridionale. Per ragioni contingenti, la sede viene fissata presso l’antico convento di «S. Maria Maddalena» in Aversa: nella provincia di Terra di Lavoro, ma nelle immediate vicinanze della popolosissima capitale del Regno delle Due Sicilie.

Non bisogna mai dimenticare che il manicomio è figlio della cultura illuministico-giacobina. Dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo a quelli dell’Uomo malato e a quelli del Malato di mente il passo è breve, anche nel Mezzogiorno, arretrata «provincia italiana» dell’Impero Francese (che erediterà e diffonderà quella cultura). Nello statuto del “S. Maria Maddalena” si fa riferimento al diritto alla cura per tutti i «cittadini-sudditi» del Regno, anche i più poveri, e non alla pericolosità sociale dei folli. L’istituzione comincia a funzionare riscuotendo il plauso di tutti gli innovatori, diventando agli occhi della nascente «opinione pubblica» un modello di esperienza avanzata, imitato e studiato anche all’estero. Dopo il 1815, sarà un fiore all’occhiello per il restaurato governo borbonico, che si guarderà bene dall’esautorarne la direzione, fatalmente collusa con il governo giacobino.

ligabue-cop.jpgMa a differenza di quanto avveniva nelle istituzioni dell’età moderna di cui parla Foucault , ad Aversa si tentano pratiche curative basate sul trattamento morale. Loro scopo è il recupero della persona – definita senza più ambiguità «malata», ovvero degna di interesse scientifico – a un trattamento medico-sanitario. Una limitazione degli aspetti di punizione/contenzione e una grande attenzione ai nuovi metodi di cura, già teorizzati (più che praticati) nella Francia rivoluzionaria da Pinel, saranno i desiderata espliciti del suo primo direttore, l’abate Giovanni Maria Linguiti (non a caso un religioso e non un medico).

Ma già a partire dagli anni ’20 del XIX secolo l’istituzione aversana si allontana rapidamente e irrevocabilmente dalle finalità ufficiali per cui era stata creata. Di giorno in giorno aumenteranno al suo interno le ristrettezze, le miserie, gli abbandoni, i maltrattamenti e gli orrori, come documenta puntualmente lo storico Vittorio Donato Catapano (che ne è stato direttore dal 1967 al 1977).

Una delle sue specificità sarà l’intoccabilità, nonostante le perplessità relative all’ubicazione manifestate già nel 1817 da Linguiti, a causa soprattutto alla sua funzione di centro di potere gerarchicamente organizzato e luogo strategico di erogazione di denaro pubblico. Sempre più il manicomio funzionerà ottemperando a un preciso mandato: quello della deportazione. Per statuto il S. Maria Maddalena è tenuto ad accogliere i matti provenienti da tutte le province del Regno (eccetto i siciliani, che dal 1827 afferiranno alla filiale di Palermo). La prassi di spedire sistematicamente il folle a centinaia di chilometri di distanza dalla sua terra, dalla sua gente, dalla sua cultura, lontano dal contesto in cui la sofferenza si è generata, caratterizzerà il periodo manicomiale; e configurerà la più violenta e totale negazione del diritto all’abitare, inteso come irrinunciabile istanza di appartenenza a un contesto antropico. La prassi della deportazione sarà bisecolare .

Le dimissioni avverranno prevalentemente in seguito alle morti per malattia: pensiamo alle ultime grandi epidemie di colera napoletane (1836-37 e 1881), che dimezzarono la “famiglia dei matti” (come allora si diceva); o al gran numero di morti causate dalle malattie da raffreddamento, dovute al fatto che molti matti giravano nudi o quasi per i padiglioni e i cortili del manicomio anche d’inverno. Durante il biennio più difficile della Seconda Guerra Mondiale (1943-1944), vi moriranno – prevalentemente per fame e stenti – ben 1.365 internati su 3.113, per cui Catapano ha potuto affermare con tragica ironia che al grande internamento dell’età classica è succeduto il grande interramento dell’età contemporanea.

Dunque l’utopia asilare ottocentesca fallisce sul nascere: l’idea di conferire ai matti lo status di soggetti di diritto – il diritto alla cura – confinandoli in un luogo altro per definizione, sia pure a loro ora destinato in esclusiva e sempre negato in precedenza, si dimostra irrealizzabile.

manicomio.jpg L’internamento, motivato dalle necessità di un’oggettiva osservazione scientifica e dai principi della giovane clinica psichiatrica, diventa violenta costrizione all’esperienza dell’Unheimliches. E, alla luce del giudizio storiografico, prassi ideologica nel senso volgare, ossia tragicamente mistificatoria: sortisce infatti l’effetto di legittimare pratiche negatrici di diritti, a causa di quel paradossale capovolgimento – tipico delle fasi di mutamento sociale rapide tumultuose e complesse – che particolari configurazioni del rapporto «azione sociale/orientamento ideologico all’azione sociale» possono assumere di fronte ai propri esiti.

E’ il fenomeno, dotato di una sua regolarità storico-sociologica, che Weber ha descritto con l’espressione eterogenesi dei fini. Le pratiche psichiatriche andranno a soddisfare istanze di controllo sociale della devianza, già presenti in età moderna ma divenute più pressanti nella società contemporanea, sempre più dominata da quei molteplici e diffusi «poteri disciplinari» che si affiancano a quelli tradizionali e li sostituiscono. Alla logica proto-psichiatrica dell’interdizione come motivazione all’internamento – scaturita in primis da istanze di tutela patrimoniale della famiglia – si sostituirà nel corso del XIX secolo quella del prevalente invio da parte di un apparato scientifico-statuale, che reciderà i legami del folle con la famiglia e lo sradicherà ulteriormente e definitivamente dal suo contesto.

Il processo esiterà in Italia nella legge del 1904 che, imitativa e per alcuni aspetti più retriva di quella francese del 1838, subordinerà la cura agli aspetti di «pubblica tutela» dalla presunta pericolosità sociale del malato di mente. Tale assetto legislativo e organizzativo avrà vita fino al 1978.

Solo contestualizzando storiograficamente la questione della nascita del manicomio e dell’assistenza psichiatrica è possibile apprezzare appieno la portata della rivoluzione basagliana. La legge 180/78 rappresenta un riconoscimento – indubbiamente tardivo – del fallimento dell’ideologia asilare ottocentesca, secondo cui sarebbe stato possibile conferire il diritto alla cura misconoscendo la cruciale realtà del controllo sociale: vale a dire quella del potere degli apparati e dei saperi sugli individui definiti malati mentali. Abolire il manicomio ha significato assumere come centrale la questione dello smascheramento della funzione latente dell’istituzione totale: il potere, attribuito all’apposito apparato psichiatrico, di azzerare questo tipo di devianza, negando il diritto alla vita degli internati con il pretesto della cura.

L’opera di Basaglia rappresenta il culmine di una fase di grande mobilitazione politico-sociale, che ha coinvolto una fetta importante della società italiana. Le lotte del movimento anti-istituzionale degli anni ’70 sono indubbiamente il portato di una lunga gestazione culturale e politica, che inizia quando il tema della follia e della malattia mentale entra a far parte della percezione della società civile italiana, grazie soprattutto al nuovo ruolo dei media (cinema, letteratura, fotografia, riviste, giornalismo di denuncia) a partire dall’inizio del XX secolo, come ricostruisce Valeria Babini nel suo saggio Liberi Tutti.

Ma è altrettanto certo che gli esiti legislativi del 1978 non sono pensabili senza l’eccezionale e breve stagione di democrazia avanzata degli anni ‘70, fatta di lotte sindacali, di battaglie per i diritti civili e la laicizzazione della società, di esperienze politiche innovative, di sperimentazione nel campo dei servizi sociali e sanitari, di forte innovazione culturale e scientifica.

Tuttavia, la 180 non era affatto la legge Basaglia, come fu subito definita dopo la promulgazione (più per attaccarla, che per apprezzarla). Non doveva essere una legge per sé, ma parte della legge che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale (la 833 approvata a dicembre, che ha fissato i principi di universalità, gratuità e territorializzazione dell’assistenza sanitaria). Eppure quella enucleazione, necessaria per evitare il referendum, l’avrebbe contraddistinta per sempre, rendendola un più facile bersaglio. Nei giorni dell’approvazione della legge, Basaglia ammonì – in un’intervista rilasciata il 12 maggio del ’78, qualche giorno dopo l’uccisione di Aldo Moro e forse per questo con scarsa risonanza – a non cadere in facili euforie. La legge 180, disse, “ha voluto omologare i cani con le banane”, dal momento che ha collocato la psichiatria nella medicina invece che nel campo sociale.

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Gli innumerevoli tentativi di modificarla andrebbero essi stessi ricordati, non fosse altro che perché all’inizio di ogni legislatura, dal ’78 a oggi, si celebra la specialissima liturgia della messa in discussione della legge 180. I progetti e i disegni di modifica sono decine, cosa che testimonia il ruolo strategico del campo psichiatrico. E’ il laboratorio sperimentale delle politiche che investono il crinale dove si incontrano stato sociale e controllo sociale, dinamiche di ristrutturazione del welfare e istanze sicuritarie. Ma soprattutto essi ci dicono che il paradigma custodialistico-segregativo è ben lungi dall’essere stato superato. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) non è affatto un elemento marginale o residuale dell’impianto legislativo. La legge è rubricata non a caso come “Accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori e volontari, e non ad esempio “riforma dell’assistenza psichiatrica”, o “misure volte al superamento dell’ospedale psichiatrico”. E’ dedicata in gran parte alla strutturazione del TSO e solo in minima parte disegna il futuro assetto dell’assistenza territoriale. Il TSO è il contrappeso sicuritario alla chiusura dell’ospedale psichiatrico.

Non a caso, tutti i tentativi di modificare la 180 si sviluppano come un’infezione nel tessuto non cicatrizzato del TSO. Gli ultimi tentativi di riforma non mettono in discussione il carattere territoriale dell’assistenza, salvano il “settore”. Nessuno, neanche la Lega Nord, vuole più i grandi manicomi dove collocare i folli. Ma non per questo si intende rinunciare al cuore della questione: la difesa contro la pericolosità sociale. Quest’ultima è oggi massimamente identificata con la figura dell’immigrato, più o meno europeo, colorato, islamizzato o regolarizzato: ma nell’immaginario collettivo – dunque dal punto di vista simbolico – il folle non perde certo la sua storica importanza.

Concludendo. La delega alla psichiatria di gestire conflitti e istanze di controllo sociale, sia pure in forme cangianti, non è stata affatto cancellata con la 180. Anche se in Italia non dovesse passare alcuna riforma della legge (come quella ultimamente proposta, che vorrebbe istituire il “trattamento sanitario obbligatorio prolungato”: fino a sei mesi e da attuarsi – guarda caso – anche presso cliniche private), esistono nuove modalità di controllo sociale sulla follia: a cominciare dalla manualistica statistico-diagnostica (il nuovo DSM V), che individua e codifica ex novo patologie, fino ai sempre più sofisticati e maneggevoli strumenti della contenzione chimico-farmacologica, dietro l’attenta e tutt’altro che disinteressata regia delle multinazionali degli psicofarmaci globalizzate (dal momento che misconoscono ogni specificità culturale alla sofferenza mentale).

Il tutto nel contesto di una sempre più diffusa ideologia sicuritaria, che fa leva su una nuova e pluri-determinata insicurezza sociale di larghi strati di ceti medi delle società occidentali. E che sempre più chiede alla politica misure volte alla separazione e all’esclusione di quel coacervo sociale di individui senza diritti elementari – a cominciare da quello alla cittadinanza – che Zygmunt Bauman ha descritto con l’espressione “vite da scarto”.

Alessio Maione

(Le foto dall’alto in basso: Franco Basaglia; Max Weber, particolare da passione e psiche; autoritratto di Ligabue; scena da un manicomio; scritta murale).

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