Filippo Tommaso Marinetti e la Grande Guerra

1914-2014. Letteratura italiana. Raccontare la Grande Guerra. La voce di Filippo Marinetti: la guerra come motore del futuro, “sola igiene del mondo” che ci purifica dalla “pietas” del passato. Il futuro e i futuristi nel primo conflitto mondiale attraverso l’artefice del “Manifesto” (1909). Presentazione di Fulvio Senardi, Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione di Trieste. Un’antologia di significativi brani tratti da diverse opere del poeta, scrittore e animatore di una rivoluzione nel pensiero, nell’azione, nella letteratura, nelle arti.

Che la guerra abbia rappresentato, per Filippo Tommaso Marinetti (Alessandria d’Egitto, 1876 – Bellagio, 1944) un costante centro di interesse, umano e letterario, non potrà certo stupire.

Trasgressivo per vocazione e per scelta, fin da quando venne espulso dal Collegio per esservi stato sorpreso con dei romanzi di Zola, Marinetti, che nasce in una famiglia di grandi mezzi ed è avviato ai migliori studi, mette prestissimo in luce una personalità incline ai gesti teatrali e alla competitività, estrosa ed eccessiva, dove l’ansia di spiccare si intreccia ad un egotismo nutrito di vitalismo esasperato, e, ideologicamente, un nazionalismo sempre più accentuato mette radici in un fumoso orizzonte filosofico di matrice social-darwinistica.

Filippo Tommaso Marinetti

La vita è lotta, per Marinetti, lotta di individui e di popoli, e nell’energia vitale degli uomini e delle razze superiori consiste quel primum “maschile” che feconda la storia, dove anche la poesia-gesto, che invita all’azione, anzi, che è azione essa stessa, rappresenta un sostanziale principio dinamico. Una sorta di paradossale privilegio della poesia che Marinetti non rinnegherà mai, nemmeno nei momenti di più accesa modernolatria. Certo, si tratta di una poesia che deve voltare le spalle ad ogni forma di sentimentalismo, alle lusinghe del “chiaro di luna” per intenderci (ndr. Vedi: Quando Marinetti non uccideva il chiaro di luna), lacrimoso referente dei poeti morti, rifiutare ogni concessione all’arte del passato, alla sua sensibilità, ai suoi luoghi: un complesso semantico-figurativo di cui è emblema Venezia «estenuata e sfatta da voluttà secolari» sede deputata di «tutta la letteratura ammalata e di tutta l’immensa fantasticheria romantica» (Manifesto futurista, 1910), che va implacabilmente cassata, per esaltare invece gli oggetti e i simboli della modernità, dentro il mondo nuovo della velocità e della tecnica: «noi vogliamo preparare la nascita di una Venezia industriale e militare che possa rovinare il mare Adriatico, gran lago italiano. […] Venga finalmente il regno della divina Luce Elettrica, a liberare Venezia dal suo banale chiaro di luna da camera ammobiliata» (ivi).

F.T. Marinetti - L'alcòva d'acciaio. Romanzo vissuto, Milano, Vitagliano, 1921. Prima edizione. Sovraccopertina di Renzo Ventura

Peraltro, motivi e metafore di una fase pre-futurista, in gran parte in lingua francese, continueranno a tramare la scrittura marinettiana, in costante faticoso equilibrio – lo si nota benissimo nella più nota delle opere che raccontano la guerra, L’alcova d’acciaio, 1921 – tra una sensibilità modellata dal decadentismo e dal simbolismo, incline ad analogie di matrice naturalistica, e la volontà di farsi, fino quasi alla provocazione espressionista, cantore del nuovo, amplificatore della voce possente delle macchine. Mentre, non di rado, una venatura di assurdo e di grottesco vivacizzerà una scrittura che tende, per eredità fin-de-siècle e dannunziana, all’ampollosità (per es. il tema degli amplessi dei mutilati, intonato in Come si seducono le donne e portato all’eccesso nell’ Alcova d’acciaio). Ovvio, peraltro, che il vitalismo senza freni sostanziato in una nuova idea dell’arte e della vita nel segno del dinamismo e dell’agonismo si manifesti anche nell’esaltazione di un attivismo erotico sfrenato e apparentemente trasgressivo, quando invece risulta in realtà la semplice esasperazione degli stereotipi di un’epoca maschilista e fallocentrica, ancorché privato, nella sua declinazione futurista, di ogni risvolto sentimentale.

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L’amore – soprattutto nella fase più enfatica della scoperta del nuovo “credo”, cui appartengono le opere scritte negli anni della guerra – è ricondotto al puro e semplice dato biologico, il coito, al quale il maschio, con più o meno tatto ed eleganza, seduce e provoca la femmina, una «belva cerebralizzata», «conquista da moltiplicare infinitamente per sottolineare il suo dominio e la sua forza» (Come si seducono le donne). Con il risultato che Come si seducono le donne (1917), il romanzo che riscosse il plauso della Duchessa d’Aosta («C’est le livre d’un compétent» commentò, a quanto racconta Marinetti nei Taccuini 1915-1921, il deposito della materia grezza della sua narrativa di guerra), L’isola dei baci – Romanzo erotico-sociale (1918), Otto anime in una bomba (1919), Un ventre di donna (1919), L’alcova d’acciaio (1921) odorano, ben più che di balistite (quando ce n’è traccia!), di sperma, come disse il professor Moleschott del Piacere di D’Annunzio, a quanto racconta il Vate in Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire.

Del resto il periodo di guerra è fertilissimo per il futurismo e per il capo-scuola in particolare, vedendo allora la luce alcuni importanti manifesti, in particolare quelli raccolti in Guerra sola igiene del mondo, 1915. Andrà ancora aggiunto che negli anni di guerra Marinetti oltre che come scrittore non si è risparmiato nemmeno come soldato, tanto da guadagnarsi 2 medaglie di bronzo (una terza gli fu assegnata come comandante di reparti di camice nere in Abissinia): attivissimo interventista, si arruola nel battaglione lombardo dei volontari ciclisti, per passare poi agli alpini. Partecipa a varie battaglie, fino al ferimento sul monte Cucco (Kuk, nei pressi di Gorizia, inverno-primavera 1917), quindi, con il grado di tenente, alla difesa sul Piave e all’offensiva italiana che lo vede entrare per primo a Tolmezzo alla guida della sua autoblindo e catturare in Val Canale un intero contingente austriaco (è il periodo in cui si svolgono le vicende raccontate in L’alcova d’acciaio).

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Dal punto di vista tecnico, Marinetti mette in opera, nella sua scrittura di guerra, i nuovi stilemi futuristi, come aveva già esemplificato, sul piano dell’ideologia e della scrittura, in Zang Tumb Tuum, del 1914, opera ispirata dalle guerre balcaniche. Quindi impiego di sostantivi doppi (come prevedeva il Manifesto tecnico del futurismo del 1912: uomo-torpediniera, donna-golfo), elasticità nell’uso di minuscole e maiuscole e dei caratteri tipografici, iterazione di fonemi a imitazioni dei suoni oppure con valore intensificante, rimodulazione libera del corpo tipografico (secondo consuetudini diffuse in epoca barocca e riattualizzate, anche per merito della sperimentazione di Apollinaire: Calligrammes, in quel grande laboratorio che fu la Parigi di primo Novecento). La distruzione della coniugazione verbale e della sintassi tradizionale, l’estromissione di avverbi ed aggettivi, quasi un “grado zero” della scrittura ma di polifonia sapientemente orchestrata, mira al traguardo della “simultaneità”, ovvero, per dire con Enrico Crispolti (Futurismo – I grandi temi, Milano, Mazzotta editore, 1998), lo sforzo di una percezione concomitante e contemporanea del vicino e del lontano, di appercezione e di memoria, di componenti visive e psicologiche, nell’interferenza dei diversi piani che intensifica fino, tendenzialmente, alla fusione il rapporto parola-suono-materia-immagine-sensazione. Una tecnica che Marinetti è attento a modulare, con un occhio al pubblico che intende raggiungere: con risultati più estremi in Otto anime in una bomba, più moderati in Come si seducono le donne e ne L’alcova d’acciaio.

Quadro di Fortunato Depero

Inutile aggiungere che una tale sensibilità, nutrita di aggressività ed egotismo, che si fa un culto della violenza militare, esalta la guerra come un irripetibile momento di ebbrezza psico-sensoriale e vive di odio-disprezzo per il nemico lascia poco spazio alla “pietas”: paradossalmente è nel rapporto con gli animali che si annida un senso di umanità che, nelle scene di guerra, non trova spazio altrove (così la scena del cavallo morente ne L’alcova d’acciaio: «Il nitrito si rinnova più straziante e lugubre. […] In fondo a quel fossato un gran cavallo ungherese rovesciato allunga enormemente il collo sforzandosi di far leva per sollevarsi. Il sangue e la vita gli colano, e anche l’intestino fuor dallo addome tagliato.[…] Il cavallo con un lungo tremito febbrile riapre le froge arriciate e masticando il fango coi dentoni trascina trascina un nuovo nitriiiiito. […] Non resisto allo strazio, punto il mio revolver sulla tempia e con tre colpi pacifico la povera bestia, per sempre», p. 318).

ANTOLOGIA

«Alla granata austriaca
che, irritata più di cento precedenti
per non aver potuto spegnere
le mie vulcaniche schiiiaantaanti
bombarde di Zagora,
mi adornò faccia cosce gambe
dei soli tatuaggi degni di noi
futuristi, barbari civilizzatissimi
che combattiamo
per il rinnovamento ingigantimento
del genio italiano
…………………… F. T. MARINETTI»
(Come si seducono le donne, Milano, Excelsior 1881, 2009, p. 5, facsimile dell’edizione 1916)

«Distruggiamo la vecchia estetica simmetrica. Nasce oggi la nuova estetica asimmetrica e dinamica. Accettiamo la collaborazione della guerra meccanica per colorare d’eroismo l’umanità scolorita dalla pace. Accendiamo le città quietiste e pacifiche colle linee violenti e balzanti delle battaglie scolpite nel corpo umano. La chirurgia ha già iniziato la grande trasformazione. Dopo Carrel la guerra chirurgica compie fulmineamente la rivoluzione fisiologica. Fusione dell’Acciaio e della Carne. Umanizzazione dell’acciaio e metallizzazione della carne nell’uomo moltiplicato. Corpo motore delle diverse parti intercambiabili e rimpiazzabili. Immortalità dell’uomo!… Donne amate i gloriosi mutilati e imitateli partecipando alla guerra. Anche voi!… Anche voi in trincea! […]» (ivi, pp. 148-149)

«La nostra artiglieria tace. Io ho acquistato una vera sensibilità di prima linea. Sono un termometro preciso. Sono il vivo presentimento dei combattimenti. Dico al mio comandante: – A mezzanotte e mezza, avremo un attacco seriissimo. Come funziona il telefono? – Benissimo. Marra ha risposto. Immediatamente, ta-pum a destra, ta-pum a sinistra. Fiammelle davanti. Tatatatatatatata, e dietro di noi il ruzzolante, russante viaggio di un barilotto:
SKIIANGKRAKRAANG
(FEBBRE A 38 GRADI)
Fortunatamente rispondono gli schiiiiianti delle nostre bombarde 58A
SKRAASKRAAKRAANG – KRANG
A tre passi da me si sveglia una mitragliatrice Fiat. Orchestra completa, furibonda, circolare. Siamo in un vortice di fragori. Sulla testa, lo strofinante serico volo delle pallottole. Poi cominciano i cannoni da montagna:
giiiiTUM   giiiiTUM  giiiiTUM
giiiiTUM   giiiiTUM
[…]»
(F. T. Marinetti futurista — Signora Enif Robert futurista, Un ventre di donna – Romanzo chirurgico, Milano, Facchi editore, 1919, pp. 166-7)

«La trincea sembra un laboratorio chimico pieno di scienziati impazziti. Impazziti forse dalle continue nuove miscele sempre più pericolose azzannanti e massacranti che la valle smisurato lambicco fornisce a noi pronti ma un po’ ansanti nel risolvere i problemi di questa così lirica e pur scientifica battaglia chimica: acetilene, solfuro di carbonio, acido solforoso, cloropicrina.

TUM-TUM BROONG
d’un nostro 75 da campagna.
Rispondono gli echi
BRAA
bu-bu-bu-bu-bu-bu
vu-vu-vu-vu-vu-vu-vu.
Entrano in scena i grossissimi calibri. Sulle bottiglie, i bottiglioni di esplosivo inebriante crollano ormai i barili giganti. E la frenetica gioventù baldanzosa dei gas a lungo compressi si scatena nella domenica di tutte le libertà omicide. I barili non bastano. Bisogna sventrarsi, pensano i cannoni, e gettare a manate e a palate sulle montagne in giro le nostre lunghissime budella di bronzo. Inghirlandiamone anche le cime che ora tintinnano sotto i primi buffetti dorati del lontanissimo faticoso sole nascente. I rumori salgono, salgono, come spirali che budella nere a strangolar le cime perché se mai vi fosse un nostalgico pastore a sognare, possa pensare d’essere immerso a capofitto colle punte dei monti nel più spaventoso inferno di tutte le religioni.»
(L’alcova d’acciaio, Start Press, 2014, p. 36)

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«Da tre giorni l’intiera 8ª squadriglia si esercita al tiro della mitragliatrice. […] Ricordo di aver per il primo nella mia Battaglia di Tripoli paragonato la mitragliatrice a una donna seducentissima perfida capricciosa e crudele con la sua lucente cintura di cartucce. Trovo ora che l’immagine è precisa specialmente se si tratta di caratterizzare queste nostre mitragliatrici S Etienne vendute dalla Francia all’Italia, più parigine e più femminili di ogni altra mitragliatrice, più passionali e più perfide. La mitragliatrice S. Etienne è un’arma perfetta, ma esige cure tali da stancare qualsiasi amante devoto. Sarebbe docile e continua se ben fissata sul candeliere in terra. Ma soffre di affacciarsi alle finestre troppo strette della blindata. Non ama gli scossoni polverosi della velocità, esige una oliatura leggerissima, dirò meglio una toilette da istituto di bellezza. Altrimenti si inceppa, mastica cartucce invece di spararle e si ingombra lo stomaco con la polvere.» (ivi, p. 109)

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«Fuori: un tramonto di nuvole vermiglie lacerate come pezzi enormi e brandelli di carne macellata. A destra e a sinistra della mia blindata, che teneva il centro della strada, il fiume monotono, grigio, giallo-sporco e verde verminoso dei prigionieri spandeva un puzzo mordente esasperante fatto di mille puzzi diversi ugualmente nauseanti e insopportabili. Visi scialbi, gualciti, spremuti con piccoli occhi celesti smarriti. Facce gonfie come nutrite di fango con gote cascanti. Facce plasmate di bile. Baffi gialli che schizzano fuori come dai visi scheletrici. Bestiame umano masticato dall’uragano.

Occhi vitrei che fissano senza vedere. Lerciume ondeggiante di cappottini curvi come verniciati di sterco e piscio. Sembra veramente un fantastico fiume di putredine, spessa quasi solida, oppresso da un affastellamento di stracci luridi, e misteriosamente spinto da un’invisibile corrente che lo conduce verso lo spiraglio-gorgo di una cloaca capace. Vi sarà poi in Italia una cloaca adatta a ricevere quel triste fiume? Il sole rosso lancia dalle brecce delle nuvole brandelli di carne su quel bollore di schiene.» (ivi, p. 303)

Fulvio Senardi

Suggerimenti bibliografici:

Mario Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, varie edizioni a partire dal 1970

Enrico Crispolti, Storia e critica del futurismo, Roma-Bari, Laterza, 1986

Claudia Salaris, Marinetti, arte e vita futurista, Roma, Editori Riuniti, 1997

***

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DOSSIER LETTERATURA ITALIANA E GRANDE GUERRA – LINK UTILI:

 1914-2014 Raccontare la Grande Guerra: la voce degli scrittori. Articolo introduttivo a firma di Giovanni Capecchi e Fulvio Senardi.

Altri contributi, altre voci di scrittori di questo Mensile Altritaliani.net nel Centenario della Prima Guerra Mondiale

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Fulvio Senardi
FULVIO SENARDI ha insegnato nelle scuole e all’università in Italia e all’estero. Attualmente presiede l’Istituto Giuliano di Storia Cultura e Documentazione di Trieste e Gorizia. Oltre a numerosi saggi di argomento storico-letterario, traduzioni e curatele, ha firmato varie monografie. Fra di esse: Il punto su d’Annunzio (1989); Gli specchi di Narciso: aspetti della narrativa italiana di fine Millennio (2001); Il giovane Stuparich – Trieste, Firenze, Praga, le trincee del Carso (2007); Saba (2012). Sua la curatela di miscellanee che raccolgono gli atti di Convegni promossi dall’Istituto Giuliano: Scrittori in trincea. La letteratura e la Grande Guerra(2008); Riflessi garibaldini – Il mito di Garibaldi nell’Europa asburgica (2009); Silvio Benco, «Nocchiero spirituale» di Trieste (2010); Scipio Slataper, il suo tempo e la sua città (2013); Profeti inascoltati. Il pacifismo alla prova della Grande Guerra (2015)

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