Torino è Torino… Non chiamatela Parigi italiana.

Come poter raccontare quello che è Torino per noi, che ci siamo nati e cresciuti e che ora viviamo lontano? Se è sempre difficile raccontare una città, lo è in modo particolare in questo caso. Torino è una città che raduna attorno a sé una tale quantità di luoghi comuni che si rischia ad ogni frase di restare ingarbugliati nelle trappole che questi disseminano ovunque: Torino grigia, Torino occulta, Torino fredda capitale sabauda, Torino prima capitale d’Italia, Torino falsa e cortese, Torino città industriale, Torino-Fiat, Torino che è “Napoli che va in montagna”. Ecco, sono le cose che di Torino ho sempre sentito dire – a Napoli, in montagna, al mare e a volte anche all’estero o perfino dai telegiornali.

Eppure, da torinese nato proprio a metà degli anni Ottanta, io di molti di quei luoghi comuni non ho che un ricordo che non so se sia un ricordo per davvero o piuttosto un’immagine trasmessa dai non-torinesi che parlavano della mia città.

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Se dovessi dire io qualcosa sulla mia Torino, direi che sempre – da bambino, da ragazzino, da giovane studente universitario e poi da torinese all’estero – l’ho vista cambiare: la rinascita del Quadrilatero, i cinema multisala che arrivano, i bar storici che chiudono, i musei e i palazzi dei Savoia che (ri)chiudono e poi riaprono, il ritorno delle variazioni sul tema “giallo” (che tanto erano piaciute a Nietzsche) sulle facciate dei palazzi, le Olimpiadi invernali del 2006. Succede anche quello che sembrava impossibile: la Fiat che pian piano se ne va e Torino che prova – già da tempo, in realtà – a farsi una vita propria al di là della Fiat (chissà che ne è della Torino che la vita propria al di là della Fiat fatica a crearsela). Completata la nuova stazione Porta Susa, ben riuscita, è ancora in costruzione il nuovo grattacielo nei paraggi – inguardabile, nato vecchio si direbbe, ma forse è presto per dirlo. Anche la vita notturna si rinnova negli anni: aprono nuovi ristoranti e bar in San Salvario, il quartiere adiacente alla vecchia stazione Porta Nuova, e arrivano nuovi eventi e festival; i Murazzi (così si chiamano le arcate sul lungofiume nei cui locali si ballano i più diversi tipi di musica) chiudono e forse riaprono, forse sono già riaperti – ma vai a sapere che ci fanno.

San Salvario

Soprattutto, io di Torino adoro la capacità di essere casa nel senso più intimo della parola. Intanto perché, come scrive Giuseppe Culicchia, “come ogni casa contiene un ingresso, la stazione di Porta Nuova, una cucina, il mercato di Porta Palazzo, un bagno, il Po, e poi naturalmente il salotto di Piazza San Carlo, e quel terrazzo che è il Parco del Valentino, e il ripostiglio del Balon”. Aggiungerei io, che dalle finestre si gode di una vista che seduce gli occhi senza che uno riesca più a guardare altrove: la collina e le montagne, che sbucano da dietro gli incroci percorrendo anche le vie più piccole, quando non te lo aspetti. Ed è una gran cosa perché si ha la sensazione che ci sia sempre un “oltre”, un orizzonte: è la città che supera i suoi stessi confini, cercando nuove dimensioni. E quando è autunno – che già è una stagione molto torinese per via dei luoghi comuni e anche della cucina della regione che vive in quei mesi il suo periodo più interessante – e passeggi in centro e il cielo è terso, e vedi quelle colline al fondo delle vie, oltre al fiume, con tutti quei colori sembra un quadro.

I Murazzi sul lungo Po di sera

C’è anche un altro aspetto che rende Torino simile ad una casa, e cioè che chi viene da fuori difficilmente impara a conoscerla come si deve in breve tempo. Percorre l’ingresso, sta in salotto, in sala da pranzo (il Quadrilatero Romano, per Culicchia, se non ricordo male), magari va in bagno una volta, se la stagione lo permette esce in terrazza, punto. Raramente, tanto per dirne una, resta un po’ di tempo in una delle parti più vive della casa: la cucina, il mercato di Porta Palazzo. A meno che uno non sia ospite fisso. A dire il vero, a volte ho l’impressione che nemmeno i torinesi la conoscano fino in fondo. Io stesso ogni tanto scopro cose nuove, che però in realtà sono vecchie e son lì quasi da sempre.

A renderla così ermetica, oltre all’indole di chi ci abita – ed ecco che qui cado in una di quelle trappole di cui dicevo prima, il carattere chiuso dei torinesi – è anche la molteplicità delle sue anime: elegante e alternativa, bigotta e multietnica, tradizionalista e innovativa, juventina e torinista (in ordine alfabetico, neh). Una molteplicità che l’arricchisce e la rende simile alle grandi metropoli e che mi incita a pensare che, fra qualche tempo, avrò davvero voglia di tornare.

L'eterno derby Juventus/Torino

Ancora una cosa: non dite, per favore, che Torino assomiglia Parigi. Perché non è vero. Tra l’altro, i tetti di tegole di Torino a me piacciono molto più dei tetti di lamiera di Parigi – che, per carità, ha mille altre cose in più. Torino assomiglia, semplicemente, a Torino.

Ludovico Franchini

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