Il Decameron al cinema. Un’opera all’origine di tanti film.

«Quale altro libro può vantare di essere stato all’origine di così tanti film? Addirittura di un sottogenere, il cosiddetto “decamerotico”? Nessuno, nemmeno Le mille e una notte. Nessun libro è così “cinematografico” come il Decamerone…. E che la sua fortuna non sia solo legata a una stagione piuttosto scollacciata della nostra produzione nazionale… lo dimostra il fatto che i primi film ispirati al capolavoro di Boccaccio risalgono al cinema muto» [P. Mereghetti, “Corriere della Sera”, 3 novembre 2003].

Marcello Albani, Boccaccio, 1940

«Non è di Pasolini, certo, il primo film dedicato a Boccaccio e alle sue novelle. Gia nel 1910 Enrico Guazzoni – che diventerà famoso in Europa e negli Stati Uniti per il suo kolossal Quo vadis? del 1913 – aveva girato un Andreuccio da Perugia dalla durata di poco meno di dieci minuti. Sarà seguito nel 1912 da Gennaro Righelli – regista del primo film sonoro italiano, La canzone dell’amore,1930, tratto da Pirandello, autore che Righelli portò altre volte sullo schermo: ricordiamo Il viaggio,1921, e Pensaci, Giacomino!, 1936, protagonista Angelo Musco, primo interprete della commedia pirandelliana – con Decamerone, tre episodi che comprendono ancora Andreuccio da Perugia assieme alle novelle del Conte d’Anguersa e del palafreniere del re Agilulfo. Una curiosità è il Boccaccio austriaco del 1920, firmato da un regista ungherese di nome Mihaly Kertész, che in seguito sarà universalmente conosciuto come Michael Curtiz, autore del mitico Casablanca. Il film è una versione dell’operetta omonima di Franz von Suppé (1879), che immagina la vita di Boccaccio mescolata alle avventure delle sue novelle. Le musiche di Suppé fanno da accompagnamento al film muto.

Sempre nell’ambito del cinema muto citiamo Il Decamerone (1921) con Manlio Mannozzi – attore di un certo rilievo se lo ritroviamo anche nei Promessi sposi di Camerini (1941) e in Riso amaro di De Santis (1948) – e Claudia Pawlova, fotografia di Sandro Bianchini. Non si hanno notizie sul regista.

Hugo Fregonese, Decameron Nights-Notti del Decamerone, 1953

Ancora von Suppé nel 1940 in un Boccaccio di Marcello Albani, che attesta la scarsa attenzione del cinema fascista per l’autore certaldese («fiacca trasposizione di un’operetta polverosa», lo giudica Morandini), pur vantando un cast di tutto rispetto: ricordiamo Luigi Almirante e Osvaldo Valenti, ma soprattutto Clara Calamai, che di lì a poco acquisterà fama imperitura per la sua apparizione a seno nudo nella Cena delle beffe di Blasetti (1941). Arriviamo al 1953 con Decameron Nights – Notti del Decamerone, del regista argentino Hugo Fregonese, dove la coppia formata da Louis Jourdan e Joan Fontaine, oltre che interpretare i ruoli di Boccaccio e Fiammetta, è anche protagonista delle tre novelle d’amore che vengono raccontate, liberamente tratte dalle storie di Paganino da Monaco e Bartolomea, di Bernabò da Genova, di Giletta di Nerbona e Beltramo di Rossiglione; interpreta Pampinea una ventenne Joan Collins. Girato in Spagna (Alhambra di Granada, Andalusia…), il film è un parziale remake di Decameron nights del 1924 diretto da Herbert Wilcox, produzione anglo/tedesca – Regno Unito e Repubblica di Weimar – con Lionel Barrymore nel ruolo di Saladino.

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Mario Monicelli affermò che Pasolini non avrebbe pensato né realizzato Il Decameron se non ci fosse stata nel 1966 la sua Armata Brancaleone, e l’opinione del grande regista dei Soliti ignoti si può anche accettare, ma integrata da alcune osservazioni.

Armando Crispino e luciano Lucignani, Le piacevoli notti, 1966

La prima è che sempre nel 1966 era uscito Le piacevoli notti di Armando Crispino e Luciano Lucignani, dalla raccolta omonima dello scrittore cinquecentesco Giovan Francesco Straparola e con un cast spettacolare: Vittorio Gassman, Gina Lollobrigida, Ugo Tognazzi. Senza dimenticare Maria Grazia Buccella, dall’ avvenenza generosa che anticipa quella delle colleghe più disinvolte, e discinte, del filone “decamerotico” degli anni Settanta.

Nel 1965 Alberto Lattuada aveva inoltre girato, negli splendidi scenari di Urbino, La mandragola, elegante versione del capolavoro di Machiavelli giocata su un registro di raffinato erotismo grazie alla bellezza di Rosanna Schiaffino; e di un grottesco di alta classe grazie alla bravura di Romolo Valli nei panni di messer Nicia e di Totò, indimenticabile fra’ Timoteo. Questi e altri titoli (si potrebbe almeno citare La bisbetica domata di Franco Zeffirelli, 1967, con Elizabeth Taylor e Richard Burton) mostrano come negli anni Sessanta era molto diffuso e di successo il genere film in costume, con opere spesso tratte da capolavori della letteratura.

Federico Fellini, Luchino Visconti, Vittorio De Sica, Mario Monicelli, Boccaccio ’70, 1962

A conclusione del decennio esce in Francia un’opera singolare, Decameron ’69, in cui sette registi – citiamo almeno l’ungherese Miklós Jancsó – sono chiamati a dare dell’opera di Boccaccio una interpretazione moderna; il risultato è un assortimento di racconti stuzzicante e vario, con toni che vanno dal comico al tragico.

Non solo il titolo di questo prodotto a più mani rimanda a Boccaccio ’70 (1962) del quartetto Fellini-Visconti-De Sica-Monicelli, ma anche la volontà di declinare al presente certi temi del certaldese, denunciare ipocrisia e moralismo (come in Fellini), gettare uno sguardo ora sarcastico (Visconti), ora divertito (De Sica), ora venato di malinconia (Monicelli) sul sesso e le sue multiformi manifestazioni.

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Pier Paolo Pasolini, Il Decameron, 1971

Una seconda osservazione viene poi a integrare quanto affermato da Monicelli. Nel Decameron (1971) Pasolini seguiva un personalissimo, e quindi “necessario” percorso, che coerentemente lo stava portando sempre più lontano nel tempo (Il Decameron, I racconti di Canterbury del 1972) e nello spazio (Il fiore delle Mille e una notte del 1974), per dar forma alla sua visione di un mondo popolare immaginato, vagheggiato, alla fine sognato, in conflitto disperatamente vitalistico con la storia. Conflitto che vedrà la sua tragica soluzione nella violenza, resa definitiva dalla tragica morte del regista, di Salò o le 120 giornate di Sodoma.

È ancora, e sempre, il Pasolini “scandaloso” delle Ceneri di Gramsci (1957) che, dialogando col grande pensatore comunista, “rivendica” le sue contraddizioni. Tutte nate dallo scontro tra cuore e viscere, pensiero e istinto, natura e coscienza, attratto com’è il poeta dall’allegria di una vita proletaria anteriore ad ogni coscienza di classe, più che dalla lotta millenaria dei popoli per la loro liberazione:

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;

del mio paterno stato traditore
– nel pensiero, in un’ombra di azione –
mi so ad esso attaccato nel calore

degli istinti, dell’estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza; […]

*

Episodio Andreuccio

Pasolini mette in scena le novelle di Boccaccio con l’intento «di superare i molti tabù della nostra morale ed esaltare la giocosità dell’atto sessuale. Concedendosi per questo una singolare libertà, quella di spostare
l’ambientazione del film dalla Toscana a Napoli e “trasformare” così la vitalità laica e anticlericale della nascente borghesia esaltata dal Boccaccio nell’ innocenza primitiva di un popolo che sembra vivere in un limbo fuori dalla Storia, senza colpe e senza rimorsi» (Mereghetti, cit.).

Prendiamo direttamente dalla sceneggiatura il titolo e l’ordine dei vari episodi: Andreuccio, Masetto, Peronella, Ciappelletto, Giotto, episodio “dell’usignolo”, Lisabetta, Gemmata, Tingoccio e Meuccio. Due novelle, quella di Ser Ciappelletto e quella di “Giotto”, o meglio di un allievo di Giotto, funzionano da cornice per le altre. E nella cornice è inserita anche una decima novella raccontata da un anziano affabulatore in un vicolo napoletano, quella della badessa che nell’alzarsi dal letto infila le brache dell’amante al posto del velo.

Episodio Masetto

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Episodio Giotto

«Decameron è un’opera che vuole essere completamente gioiosa, in maniera astratta. La gioia di vivere che era nel Boccaccio (anche nei racconti tragici) proviene dall’ottimismo del Boccaccio… un ottimismo storico. Cioè nel momento in cui lui viveva, esplodeva quella grandiosa novità che era la rivoluzione borghese». Così Pasolini il quale, non potendo condividere questo atteggiamento di ottimistica e totale adesione, mette in secondo piano ciò che di tipicamente borghese era nel Boccaccio per «propendere verso la parte concretamente, veramente, esistenzialmente popolare. Quindi ho ritrovato quella gioia (che nel Boccaccio è giustificata ottimisticamente dal fatto che lui viveva la nascita meravigliosa della borghesia) e l’ho, diciamo così, sostituita con quella innocente gioia popolare, in un mondo che è ai limiti della storia, e in un certo senso, fuori della storia» [Intervista a Pasolini, “Cinemasessanta”, n. 87/88, 1972].

*

Su quest’opera, di cui tanto si è scritto e detto, mi piace almeno citare la bella analisi di Sandro Petraglia da un Castoro Cinema del 1974. _ Al di là di ogni intenzione troppo programmaticamente ideologica da parte di Pasolini, «la galleria dei personaggi è comunque memorabile e disegna un oceano immenso di figure irripetibili, segni di una possibile estroversione depurata da antichi pregiudizi e sensi oscuri di colpa. Una delle drammatiche contraddizioni pasoliniane sembra così finalmente placarsi in una rasserenante contemplazione fanciullesca delle cose e in una fantastica esplosione delle parole che annulla l’afasia dell’incomunicabilità borghese. Qui ognuno comunica con il proprio corpo, i propri umori sanguigni, la propria materia fatta colore, fango, denti spezzati, sesso, sudore… Ma anche in questa ennesima discesa in un mare placido, in questo girotondo di adolescenti che scherzano con le giornate e gli anni, lontani dal fervore niente affatto “gioioso” dei nostri tempi, non si può non scorgere una spinta emotiva travolgente e luminosa… Si ride alla vita e alla materia, anche se talvolta si incontra la morte. Perché anche in questo caso si muore con una corsa struggente tra le viti dell’estate… Lisabetta, poi, coltiva la morte in un vaso di basilico, la accarezza, intreccia con lei segreti colloqui che rievocano la folle notte d’amore che ha preceduto il sacrificio dell’amante…».

Episodio Lisabetta

E Petraglia, sceneggiatore di tanti importanti film dell’ultimo cinema italiano, conclude confrontando Decameron (e I racconti di Canterbury) col primo cinema pasoliniano, senza dimenticare i versi friulani del debutto poetico: «I giovani grossolani e prepotenti del Canterbury e Masetto e Ciappelletto, e Gemmata e Lisabetta e Ninetto e Franco Citti e tutti gli altri prorompenti interpreti, sono costantemente “addolciti” nella loro estemporanea voglia di vivere e vivere con il corpo, quanto i primi personaggi del cinema pasoliniano erano invece resi con pienezza di forme e pesantezza di gesti. Basti pensare, in questo senso, alla candida storia dell’usignolo che conferisce alla parte centrale del Decameron il nitore delle classiche composizioni cinquecentesche e la grazia del sonetto petrarchesco. La scoperta dell’amore e del sesso è qui intrisa di mestizia e di fresco stupore per la magia del fiorire: riporta con un balzo di anni alle umide sere friulane e al mistero che si andava schiudendo sotto gli occhi del matto-adolescente incantato della realtà. Anche in questa sequenza c’è una personale esibizione, un balenare improvviso di scandalosa impudicizia:

Io sarò ancora giovane,
con una camicia chiara
e coi dolci capelli che piovono
sull’amara polvere.
Sarò ancora caldo,
e un fanciullo correndo per l’asfalto
tiepido del viale,
mi poserà una mano
sul grembo di cristallo.
(Il giorno della mia morte, in La meglio gioventù

[Sandro Petraglia, Pier Paolo Pasolini, pp. 108-111]

Episodio dell’usignolo

*

Il film di Pasolini ebbe un successo straordinario (ottanta denunce per oscenità!), tanto che nel 1972 – secondo i dati di Michele Giordano, La commedia erotica italiana – ben trentuno film inaugurano alla grande, e con sempre maggiore libertà rispetto al modello letterario, il filone “decamerotico”.

Mariano Laurenti, Quel gran pezzo della Ubalda tutta nuda e tutta calda, 1972

Nel ’73 il fenomeno si era già ridotto a tredici titoli, nel ’74 a tre, nel ’75 a uno solo, «ma il genere ha ormai colpito l’immaginario popolare, sia per le grazie, naturalmente discinte, di tante formose attrici (tra le più “acclamate” ricordiamo Barbara Bouchet e Edwige Fenech) sia per la fantasia dei titoli in cui si sbizzarriscono i produttori italiani. Da Una cavalla tutta nuda a Decameron proibitissimo (Boccaccio mio statte zitto); da Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno al celeberrimo Quel gran pezzo dell’ Ubalda tutta nuda e tutta calda, dove (per fortuna o per carità) di Boccaccio e del suo Decamerone non resta proprio niente» [Mereghetti, cit.].

Sono proprio i titoli (aggiungiamo Fratello homo, sorella bona, Fra’ Tazio da Velletri, E si salvo’ solo l’Aretino Pietro con una mano avanti e l’altra dietro) il lascito più significativo del filone, in quanto deposito linguistico duraturo e ancor oggi ricco di echi ribaldi nella memoria del parlante italiano.

Silvio Amadio, … E si salvò solo l’Aretino Pietro con una mano davanti e l’altra dietro…, 1972

Tra le pellicole da segnalare sgomberiamo anzitutto il campo da prodotti che non hanno niente a che fare con Boccaccio e che in Italia sono distribuiti con titoli ingannevoli. Decameron francese (1971) di Jacques Scandelari non è altro che, come recita il titolo originale, La philosophie dans le boudoir di sadiana memoria; stesso discorso, e stessa se non più sfacciata disinvoltura della distribuzione, vale per il raffinato Raphaël ou le débauché (1971) di Michel Deville, che in Italia diventa Le notti boccaccesche di un libertino e di una candida prostituta!

Primo della serie è Una cavalla tutta nuda di Franco Rossetti, con Don Backi (allora cantante di successo) e Barbara Bouchet. Notiamo che il film, a differenza di quasi tutti gli altri che seguiranno, si accosta più al modello “brancaleonico” e picaresco che decameronico in senso stretto; inoltre «non si snoda su episodi autonomi ma è il racconto stesso, sempre con gli stessi personaggi, a creare gli episodi» [Giordano, cit., p. 31]. Stessa struttura ha Boccaccio (1972) di Bruno Corbucci, con Enrico Montesano e Sylva Koscina, sei novelle legate alla presenza in tutte dei due burloni Bruno e Buffalmacco…

E potremmo anche chiudere qui la nostra rassegna con le parole di uno dei maggiori studiosi del cinema popolare: «Mariti cornuti, frati laidi e gaudenti, mogli impenitenti, suore scatenate popolano l’universo antropologico di un filone di grandissimo successo, cui fa difetto una certa ripetitività di situazioni narrative, tanto che non sorprende il fatto che il gioco dei produttori sia durato relativamente poco» [F. Melelli, Orchidea De Santis, p.17]. Ma almeno un titolo ci piace ancora citare, Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno (1972) di Bitto Albertini – uno dei più grandi successi al botteghino -, in cui si toccano picchi tali di volgarità allo stato puro da fare di questo film, a dire di Giordano, «un capolavoro del trash».

La deriva del filone – nato dall’incolpevole modello pasoliniano – verso eccessi di volgarità a dir poco deliranti, era esito inevitabile vista la ripetitiva piattezza delle situazioni narrative di cui giustamente parlava Melelli.

*

Due titoli per finire:

Miklós Jancsó, Il cuore del tiranno. Boccaccio in Ungheria, 1981

Il cuore del tiranno. Boccaccio in Ungheria (1981) di Miklós Jancsó vede tra gli interpreti Ninetto Davoli, in una storia dove gli intrighi di palazzo si confondono, mescolando continuamente realtà e finzione, con il tentativo di una troupe di attori di mettere in scena una non meglio precisata novella di Boccaccio.

Decameron Pie di David Leland (2007), con Hayden Christensen di Guerre stellari, vuole richiamare il fortunato modello giovanil-demenzial-sentimentale della commedia americana di successo cui allude il titolo italiano (negli Stati Uniti, dove il film è uscito solo in DVD, il titolo era Virgin Territory): trasportata però nella Firenze del XIV secolo la “torta di mele” ha perso decisamente sapore.

Gianfranco Bogliari
Università per Stranieri di Perugia

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SOMMARIO DEL MENSILE BOCCACCIO 700

L’EDITORIALE
Né come Dante né come Petrarca: su Boccaccio rimatore, di Roberto Fedi
Boccaccio, il Decameron e la questione della lingua italiana, di Anna Mori
La voce a Boccaccio: Madonna Oretta, Giornata VI, Novella 1, di Floriana Calitti
Intervista a Giancarlo Alfano. L’intrigante Decameron, tra passato, presente e futuro, di Giovanni Capecchi
Il Decameron al cinema. Un’opera all’origine di tanti film, di Gianfranco Bogliari
Boccaccio in Europa. Non solo il Decameron, di Ilaria Rossini
L’affascinante storia editoriale del nuovo testo del “Decameron”. Intervista a Maurizio Fiorilla. Di Stefania Modano
Boccaccio e lo straordinario successo del tema del “cuore mangiato”, di Floriana Calitti.
Intervista di Floriana Calitti ad Amedeo Quondam. Le cose e le parole del mondo nel “Decameron” di Boccaccio.
Nastagio degli Onesti e l’exemplum della caccia infernale, di Floriana Calitti
Il dono della sposa. Boccaccio, Botticelli e la pittura del Quattrocento di Anna Maria Panzera
Boccaccio narratore in versi: Il “Ninfale fiesolano” di Daniele Piccini
Boccaccio e le “conclusioni del Decameron” di Luigi Surdich

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE SU BOCCACCIO AL CINEMA

Pier Paolo Pasolini, La meglio gioventù, Firenze, Sansoni, 1954 [numero di “Paragone”], poi in La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Torino, Einaudi, 1975.

Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Milano, Garzanti [prima edizione 1957], poi 1976.

Pier Paolo Pasolini, Intervista, in “Cinemasessanta” n. 87/88, gennaio-aprile 1972.

Pier Paolo, Pasolini, Trilogia della vita. Il Decameron. I racconti di Canterbury. Il Fiore delle Mille e una notte a cura di G. Mattei, Bologna, Cappelli, 1975 e poi Pier Paolo Pasolini, Trilogia della vita. Le sceneggiature originali de Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il Fiore delle Mille e una notte, a cura di G. Canova, Milano, Garzanti, 1995.

Sandro Petraglia, Pier Paolo Pasolini, Firenze, Il Castoro Cinema, La Nuova Italia, 1974.

Luciano De Giusti, I film di Pier Paolo Pasolini, Roma , Gremese Editore, 1983.

Masolino D’Amico, La commedia all’italiana. Il cinema comico in Italia dal 1945 al 1975, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1985.

Vito Attolini, Immagini del Medioevo nel cinema, Bari, Edizioni Dedalo, 1993.

Laura, Luisa e Morando Morandini, Il Morandini. Dizionario dei film 2000, Bologna, Zanichelli, 1999.

Michele Giordano, La commedia erotica italiana. Vent’anni di cinema sexy “made in Italy”, Roma, Gremese Editore, 2000.

Fabio Melelli, Orchidea De Santis, Perugia, Edizioni Art Core, 2003.

Paolo Mereghetti, Boccaccio o la maledizione del grande schermo, in “Corriere della Sera”, 3 novembre 2003.

Inoltre, sulle pagine web:

Cinema e Medioevo

www.pasolini.net/saggistica_pppcorsaro_unita.htm

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