Barbara Herzog: l’arte dello stare sopravvento in poesia.

Barbara Herzog: una ragazza che porta in se la dolcezza e il rigore della sua doppia natura, svizzera e italiana. Una poesia che sboccia in un percorso biblico già segnato dove il poeta si mette sopravvento per ascoltare meglio i suoni, gli odori, i sapori e i saperi della vita che dettano chiaroscuri di versi da tenere a futura memoria.

Barbara Herzog è una giovanissima poetessa, con radici svizzere oltre che italiane, laureata in Lingue e Letterature Straniere a Bologna con una tesi in Letteratura Africana. Attualmente lavora presso lo Sportello Protezioni Internazionali.

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Ha pubblicato nel settembre del 2012 il suo primo libro di poesia: Sopravvento per la Casa Editrice Raffaelli di Rimini con prefazione di Davide Rondoni.

La sua breve biografia si completa nel libro stesso perché, come dice Rondoni, la Herzog: «Si costruisce un ritratto tutto interiore, come per necessità di “sentirsi”, di vedersi accadere al livello più profondo del vivente. Il volto cercato è quello dell’anima, o come la si vuole chiamare, il primario livello dell’esserci qui e ora nel mondo.»

In effetti il libro di Barbara, già dai titoli che ne suddividono le partiture, sembra lanciarci come singole pietre essenziali, come essenziale e scarna, priva di orpelli e incisiva è la sua poesia, alcune chiare riflessioni su come essa stessa vede la sua vita e su come ne regola i conti con i suoi versi. Così, questi titoli: Smarrimento, Colpa, Regalo, Troppo, Tregua, Consapevole sembrano raccontarci un percorso quasi biblico della poetessa che dallo smarrimento dove «nell’attesa/come il sottobosco brulicante/la coscienza si annoda» arriva alla consapevolezza dove «si lascia trasportare dal vento/liberà conquistata/al sicuro/per la prima volta/comprende», senza dimenticare che poesia, a volte, fa rima con follia come sembra avvertirci l’incipit del libro: «Il pulviscolo si posa/una cintura di ferro/implode/la follia incede/a passo felpato.»

Ma l’idea che più incuriosisce di questa raccolta è il titolo, la parola: Sopravvento. Agli amanti della chiarificazione linguistica non sfuggirà che questo termine ha più significati. In specie possiamo intenderlo come un avverbio che indica la parte da cui soffia il vento (riferito alla posizione di chi osserva), o come un sostantivo maschile che, in senso figurativo, indica il predominio, la superiorità, il mettersi in una posizione di vantaggio. In quale accezione viene allora utilizzato dalla Herzog il termine Sopravvento – al quale lei stessa ha dato così rilevanza, tanto da metterlo come titolo della sua raccolta -? Penso che, basandomi anche sulle indicazioni che la stessa autrice dà nell’intervista sottostante parlando di quello che è per lei la poesia, si possa pensare di più all’avverbio. L’autrice è in fondo nella posizione di chi osserva – appunto sopravvento – e sta a guardare ciò che le accade intorno per poterlo cogliere al meglio, per poterlo vivere come nell’attesa di una burrasca da cui deve poi nascere un’onda di emozioni che sfoceranno nei versi. Dice appunto la Herzog che: «In profondità non ben localizzabili un filo d’erba si alza e comincia ad ondeggiare nel vento. Una burrasca incombe». E lo stare Sopravvento in fondo aiuta a sentire meglio i rumori, gli odori, i colori di questa burrasca dell’anima da cui venire travolti, aiuta a isolarli meglio dal resto del modo per poi riconsegnarli al tempo e al luogo della poesia. In fondo, pensando alla seconda accezione del termine, questa è anche una posizione di vantaggio, una posizione privilegiata da cui guardare.

Personalmente conosco Barbara da circa un anno. Mi ha fatto leggere i suoi testi prima di pubblicarli e subito mi è sembrato che ci fosse in lei quella giusta tensione e quella sana attenzione alla poesia che ne avrebbero fatto una buona osservatrice del mondo, e una bella voce da inserire nella poesia italiana. E’ una bella persona, solare e genuina, corretta e generosa. Una persona da conoscere meglio.

Ma vediamoli alcuni di questi testi. Ve ne propongo un paio tra quelli che preferisco:

«Dove il sole passa di striscio

respira l’aria

la donna del mio cuore

poche parole per te

hanno un significato

stai in silenzio

frainteso dal mondo

senza alcuna premessa

ti palesi al mondo

tuo è il profumo della neve»

(dalla sezione: Regalo. Bella e intensa, concreta e visibile questa donna di poche parole che respira dove c’è poco sole e si appropria del profumo della neve. La neve non ha profumo ma la metafora poetica rende giustizia ai sensi: laddove sembra quasi una colpa il silenzio – frainteso dal mondo – ecco che l’olfatto diventa una peculiarità, un regalo della donna stessa, come la poesia che la ospita)

*****

«Il fresco sbagliato

di una sera di fine luglio

non placa il calore della fronte

chinata a trasmettere il mondo

la vita secondo lei

meno male che le cicale

non si fanno ingannare

da un errore eolico

il sole mediterraneo

tornerà a splendere»

(dalla sezione: Tregua. Efficace l’immagine delle cicale che continuano – questo ce lo immaginiamo, sembra quasi di sentirle – il proprio canto anche se la sera di fine luglio appare troppo rinfrescata dal vento. La tregua al caldo estivo non è tuttavia sufficiente al poeta per interrompere i propri pensieri sul mondo e sulla vita.)

*****

Intervista all’autrice

Ho pensato che, almeno per i poeti esordienti, sia interessante raccogliere una testimonianza diretta su alcuni punti focali del proprio “essere poeta” e, immaginando quali possano essere le curiosità che interessano i lettori, ho ideato questa brevissima serie di domande, che sarà il filo conduttore di questa parte della rubrica. Barbara Herzog mi ha sollecitamente risposto e l’ha fatto in modo davvero esaudiente. Riporto qui il nostro dialogo.

Barbara Herzog

Domanda – Quando scrivono i poeti? Di giorno, di notte, nei momenti più impensati, nelle pause di riflessione, dopo aver letto o visto qualcosa che li ha colpiti? Istinto, Ispirazione o disciplina? Raccontaci il tuo tempo della poesia, nella poesia.

Risposta – A questa prima domanda rispondo innanzitutto con una mia riflessione di qualche settimana fa, sul perché scrivo:

“In profondità non ben localizzabili un filo d’erba si alza e comincia ad ondeggiare nel vento.

Una burrasca incombe. Il cambio repentino e violento tra limpido azzurro e viola striato di nero si risolve in impeto irreprensibile di fermare parole che arrivano da lontano, accoglierle in una sinfonia che non conosce chiavi. Tuttavia ognuna ha un unico posto dove posarsi infilarsi incastrarsi. Questo è il frangente in cui mi sento risucchiata nelle fosse delle Marianne e sospinta in un volo potenzialmente sconfinato da un’aria ascensionale senza pari. Ogni volta che mi rapisce percepisco un universo, forse parallelo, intero, e un particolare, che mi chiama e mi si apre ai sensi come un fiore. Se anche volessi, non posso esimermi. Prende possesso di me. Mi prende per mano, con una carezza su un dito, con uno strattone doloroso, indirizza. Verso la parola. La comprensione. La connessione. I filosofi, sulla scia di questa stessa spinta, rispondono all’esigenza della Regola. Ieri, oggi, domani. Così siamo. E istituiscono il Vero. Universale. Il poeta coglie l’attimo. Assolutamente confutabile da quello successivo. Innegabilmente reale qui e ora. E perciò una delle infinite particelle della realtà. Apprezzabile da chiunque. Cogliere l’essenza del momento, fisico, temporale, emotivo, senza passato ne futuro, ma intriso di tutte le variabili, costituisce la forza di propulsione nel poeta.

Non vi è cibo, ne amore, ne fiato anteposto al richiamo di quella Parola. Che non è La parola. Una tra tante. Ma l’unica toccabile per questo poeta in questo istante. Universale per un attimo. La massima aspirazione. Certamente vi sono i filosofi poeti ed i poeti filosofi, e come ogni umana contaminazione ci spingono oltre i confini posti. Stringiamo la mano al fisico, al teologo, a chi sia alla ricerca dell’Assoluto. Ma il poeta cerca, e per qualche istante trova, l’assoluto nel dettaglio transitorio e così imprescindibile della nostra vita. Puntare il dito in meraviglia, ecco un’essenza della poesia.”

Si tratta dunque di un’inclinazione preesistente verso la parola, l’espressione, l’urgenza di percepire il mondo, e ri-regalarglielo. L’ispirazione mi coglie all’improvviso attraverso ognuno dei sensi. Il sentore di pioggia nell’aria, le note di un merlo, l’ondeggiare di un albero nel vento. L’incontro con una persona lontana o vicina attraverso parole, espressioni del viso.

Non vi è un momento “apoetico” nella vita. Ti puoi trovare in cucina, a letto o al lavoro ed essere folgorata quando meno te lo aspetti. Ma i momenti disponibili per permettere il pieno sviluppo delle parole che ti nascono dentro sono pochi. Personalmente necessito di quiete, e possibilmente solitudine per questo. Quindi mi annoto qualche appunto su un librino che non lascia mai il mio fianco, e spero arrivi sera presto da liberare il pensiero incastrato.

Tra l’imbrunire e il buio fondo, fuori dove gira l’aria, avviene questo intreccio di diletto e struggimento che è la scrittura. Anche in pieno inverno, avvolta in mille strati con la mano destra blu dal gelo.

Parliamo di una magica attrazione verso penna e carta e l’immensa soddisfazione nel riuscire a trovare la parola, come la carota a penzoloni ad una lenza davanti al muso del mulo.

Ma una volta ingoiata la carota, ricomincia la fame.

In proposito inserisco qui una mia poesia recente che forse riesce a rendere meglio quello che cerco di dire…

“Costipazione

opprime le viscere

a libretto chiuso

e penna appoggiata

mondi fluttuano

si mischiano infruttuosi

comprimendo l’anima

ad armi abbassate

magia si sprigiona

dal fruscio della pagina nuova

dal click della penna sfoderata

si spalancano dighe nascoste

pace effimera ad ogni parola che trova il suo letto

liberazione dall’assalto!

Giubilate, guerrieri

riversatevi nelle lande conquistate

assaporate ogni istante

del cessate il fuoco

finché la sfera scorre

sulla carta orgogliosa

il mondo dei balocchi

spalanca i portoni

nessuno rimane fuori

urge la presa finale

si abbatta la folgorazione

in un ultimo sussulto

staccherò la penna

riprende la guerra

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Questa “condizione” in me è quasi perenne. Ma talvolta inaridisco. Mi sento come sbattere contro dei muri senza finestre. Una vera prigione. Allora mi dedico maggiormente alla lettura, fino a quando non si sbriciolano i muri e torna il respiro frenetico dell’ispirazione. La poesia fa questo. Apre mondi. Incluso il proprio.

Mi sono dilungata parecchio su istinto e ispirazione – mi permette di descrivere quell’impulsività vitale che tanto mi sta a cuore.

Poi viene la disciplina. Evitare le proprie creazioni per un lasso di tempo variabile per guardarle con occhi nuovi. Critici. Senza impulsività. Inciampare durante la lettura su parole che stridono, impostare il giusto ritmo, togliere il ridondante. Qualche sporadica poesia rimane uguale a se stessa non importa quanti passaggi. Qualcuna si sedimenta pian piano lungo dei mesi. Alcune contengono magari un unico verso che colpisce a ogni lettura con la stessa potenza, ma è immerso in un farfugliamento terribile. Quindi ci si fa violenza e si estrapola quel verso per metterlo in un cantuccio, in attesa dell’ispirazione giusta.

D – Perché scrivi poesia, e non prosa ad esempio?

R – In realtà scrivo poesia, racconti, aforismi, brevi saggi. Ho anche fatto qualche tentativo di scrivere romanzi, finora abortiti. La poesia ha una potenza tutta sua. Cristallizza in pochi versi ciò che altrimenti richiederebbe pagine su pagine per finalmente risultare slavato ed insignificante. Mi attrae la capacità di addensare in una freccia che colpisca al centro. In modo secco e senza fronzoli. Alcuni aspetti della vita sono talmente grandi, permeanti, che per essere davvero compresi e resi accoglibili, devono subire questa riduzione all’essenziale. Se no ci si perde. Personalmente faccio fatica con le poesie di lungo respiro. Con le dovute eccezioni ovviamente. Ma nella poesia apprezzo la brevità.

Quando sento la necessità di dilungarmi in dettagli per rendere giustizia, capisco anche che la forma della poesia non è adatta. Che ne risulterebbe una forzatura, una costruzione di retorica auto-adulatoria e priva di trasporto. Allora mi affido al racconto o al saggio.

Ma è stata la poesia ad aprirmi una porta di vita lungamente chiusa, in quanto mi ha aiutata ad incanalare un caos di pensieri, atti ed emozioni. Mi è necessaria come valvola di sfogo e dono di equilibrio.

D – Raccontaci il tuo poeta preferito e come lo hai incontrato nel tuo percorso di vita/studio/letture e naturalmente dicci quale poesia preferisci di lui/lei.

R – Nominare in un vasto giardino delle stagioni un unico poeta come preferito mi è sinceramente impossibile. Sono piuttosto autistica per periodi alla volta.

Ho passato i periodi ACDC, Barry White, Temptations, Tchaikovsky, Billie Holiday e mi fermo senno riempio pagine.

Ho fatto profondamente miei Leopardi, Pessoa, Baudelaire, Cvetaieva, Ungaretti, Dickinson, Rilke e mi fermo nuovamente.

Ogni respiro di vita ha la sua canzone, e la sua poesia. Che ci comprende e ci spinge avanti come nessuna prima e nessuna poi. E’ un’evoluzione continua. Fermarsi ad un poeta, ad una poesia, significherebbe fermare la vita. Potrei lasciarmi andare in ovvietà che lasciano il tempo che trovano, citando “L’infinito” di Leopardi, tanto abusato da chi non è mai andato oltre. Vorrei davvero farlo, ma mi rifiuto di mettermi in schiera.

Posso dire che al momento attuale mi sento molto vicina a “La valle delle Visioni” di Sauro Albisani, poeta garbato ma sincero.

Stavo quasi per anteporre al mio libro una poesia di Rosita Copioli che sembrava raccogliere il fulcro di questo mio passaggio di vita.

Davide Rondoni. Con il suo rispetto per la vita in tutte le sue sfaccettature, l’accoglienza piena e senza ritrosie; quasi scevro inspiegabilmente di paure di sorte, capace di comprensione e quindi di amore dove la maggior parte si ferma.

Citerò, per dovere di risposta, una poesia a me cara. Concisa, folgorante, come le prediligo.

Di Alberto Bevilacqua, dalla raccolta “La Camera Segreta”.

“gli abissi quotidiani

ansimano come nel pesce

sbattuto sul bancone del mercato

nell’aldilà del forse

richiamare un minimo d’attenzione dall’eterno

sarebbe ormai indispensabile

persino un legittimo cordoglio

siamo l’effimero stupore

di qualche dio in cui sbattiamo per caso”

Cinzia Demi

“Missione Poesia” è una rubrica culturale, curata da Cinzia Demi, per il nostro sito Altritaliani. Chiunque volesse intervenire con domande, apprezzamenti, curiosità può farlo tramite il sito cliccando su « rispondere all’articolo » o scrivendo direttamente alla curatrice stessa all’indirizzo di posta elettronica: cinzia.demi@fastwebnet.it

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Cinzia Demi
Cinzia Demi (Piombino - LI), lavora e vive a Bologna, dove ha conseguito la Laurea Magistrale in Italianistica. E’ operatrice culturale, poeta, scrittrice e saggista. Dirige insieme a Giancarlo Pontiggia la Collana di poesia under 40 Kleide per le Edizioni Minerva (Bologna). Cura per Altritaliani la rubrica “Missione poesia”. Tra le pubblicazioni: Incontriamoci all’Inferno. Parodia di fatti e personaggi della Divina Commedia di Dante Alighieri (Pendragon, 2007); Il tratto che ci unisce (Prova d’Autore, 2009); Incontri e Incantamenti (Raffaelli, 2012); Ero Maddalena e Maria e Gabriele. L’accoglienza delle madri (Puntoacapo , 2013 e 2015); Nel nome del mare (Carteggi Letterari, 2017). Ha curato diverse antologie, tra cui “Ritratti di Poeta” con oltre ottanta articoli di saggistica sulla poesia contemporanea (Puntooacapo, 2019). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, rumeno, francese. E’ caporedattore della Rivista Trimestale Menabò (Terra d’Ulivi Edizioni). Tra gli artisti con cui ha lavorato figurano: Raoul Grassilli, Ivano Marescotti, Diego Bragonzi Bignami, Daniele Marchesini. E’ curatrice di eventi culturali, il più noto è “Un thè con la poesia”, ciclo di incontri con autori di poesia contemporanea, presso il Grand Hotel Majestic di Bologna.

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