A proposito di Un tram chiamato desiderio, regia Antonio Latella

In tournée in Italia il pluripremiato «Un tram che si chiama desiderio» di Antonio Latella, regista campano tra i più innovativi considerato una delle figure di spicco del teatro contemporaneo europeo. La vicenda del “tram” di Tennessee Williams, è nota al grande pubblico grazie alla trasposizione cinematografica diretta da Elia Kazan nel 1947, che vedeva protagonista un indimenticabile Marlon Brando. Ecco la recensione di Elisa Castagnoli (Ravenna).

Luci accecanti, frastuoni improvvisi, la scena è pensata come un enorme meccanismo performativo atto a decostruire il testo e la rappresentazione frontale, creare uno spazio-teatro e fare in modo che entro tale spazio energie, ritmi, parole, gesti entrino in circuito, in rapporto generativo l’uno all’altro, violentemente in collisione fino a provocare la ricercata apertura o esplosione, il fare a pezzi la corteccia dissecata, la superficie del dramma borghese e della rappresentazione realista.

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Qui l’intreccio del testo originale di Tennessee Williams ruota intorno al personaggio di Blanche Dubois il cui arrivo presso la sorella Stella e il rozzo e violento cognato Stanley ribalta gli equilibri della situazione, vede precipitare in un gioco di forze tensivo, feroce e stringente i rapporti tra i personaggi e progressivamente scivolare la protagonista nel disordine mentale e nella follia. Il meccanismo scenico nell’interpretazione contemporanea di Latella supera la strettoia della struttura drammaturgica realista, il conflitto dell’epoca di Williams tra un mondo aristocratico e decadente riflesso da Blanche Dubois e uno proletario e materialista in ascesa come il capitalismo americano nell’immediato dopoguerra figurato da Stanley Kowalsky. Come “questo tram ” evocato dal titolo il lavoro di Latella conduce direttamente all’ “archi-struttura”, al luogo primo e precedente il testo, al moto di corpi desideranti o alle forze sotterranee che li muovono: eros distruttivo, follia, tacita violenza, il labirinto dei sensi e le sue leggi, le sue pulsioni inconsce volutamente indotte e messe in atto dal gioco teatrale partendo da scintille generate sulla superficie-testo.

Lo spazio è disegnato come un set cinematografico in costruzione, come si fosse nella realizzazione di un film e insieme nella fase di montaggio del medesimo. Scene si aprono come scatole, inquadrature, dialoghi tra i personaggi Blanche e Stella, Stanley e Stella, Stanley e Blanche dentro la cornice svuotata dei mobili di cui resta lo scheletro visibile nella sua esterna struttura: un letto matrimoniale che funziona come cornice-scena, una vasca da bagno ricoperta di nylon trasparente, un lavandino ugualmente dall’interno svuotato e reso visibile all’esterno. Per terra fili, cavi elettrici a vista disegnano uno strano circuito chiuso al suolo entro cui sono posizionati i mobili, gli oggetti, i riflettori e tutte le altre apparecchiature elettriche di scena. Al suolo segni grafici precisi, indicazioni, frecce, una croce di nastro isolante posta di fronte a una porta fittizia d’appartamento delimitano il fondo della scena , marcano il territorio come si fosse in una mappatura a vista dello spazio con segni grafici di posizionamento utilizzati solitamente in fase di lavorazione.

Spazio aperto, dunque, senza quinte, teatro a vista ma anche spazio cinematografico simile a un set di lavoro in costruzione dove i mobili, i supporti o le apparecchiature sceniche sono lasciate sul campo impedendoci una totale identificazione con il piano della storia, infine incastonate con amplificatori di suono, microfoni mobili sparsi un po’ ovunque, fari e riflettori.
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Latella afferma in questo senso: “E’ proprio il sovrabbondante realismo che trovo in Williams che mi fa subito pensare a una dimensione dove il reale è natura morta, dove il realismo per troppa realtà perde concretezza divenendo memoria d’uno stato. Ed è in questa memoria che i personaggi si muovono quasi le cose fossero un labirinto necessario al loro stare nel mondo e ricordarsi ciò che si era”. Immagino un luogo dove le cose vivono d’una luce propria; sono le cose che illuminano i corpi, fantasmi d’una memoria, maestose nel loro esserci ed esserci state anche dopo la morte. Le cose sopravvivono a tutto, ci sopravvivono.”

Un riflettore mobile manovrato in scena dagli attori, puntato come una luce accecante su uno o un altro personaggio, lampadine nude a lato o contro un volto in proscenio , creano condizioni estreme di accecamento o di visibilità paradossale. Tagli luminosi di luci trasversali ritagliano singole figure o dialoghi tra due personaggi per illuminare precisi nodi drammatici. Microfoni sparsi un po’ ovunque sulla mappatura del circuito scenico modulano o ingigantiscono singole voci in momenti monologati dove i personaggi appaiono ritrovare una propria voce interna, intima, segreta in contrappunto alla scena dialogata. Tre sono i livelli della parola che si intrecciano in questo senso: il monologare di singole voci solitarie strappate come battute nude, trasparenti a qualche microfono, i dialoghi nel dramma vissuto tra i personaggi, infine un narratore presente a scena aperta, illuminata a giorno dall’inizio che da avvio alla rappresentazione riportando didascalie in realtà corrispondenti alla fine del testo- evidente dichiarazione d’intenti, il testo è re-indirizzato dalla fine, non è la storia in quanto dramma realista che importa ma quello che ne diviene nella psiche del personaggio principale, Blanche, come dissolvenza e oggetto del suo ricordo.

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Questo narratore-testimone e regista insieme su scena (identificandosi solo all’ultimo con il personaggio del dottore), enuncia dall’esterno quello che accade attraverso l’uso straniante di didascalie, interagisce con gli attori, racconta, descrive azioni dilatate nel tempo in rapporto ai ritmi e gesti astratti dei corpi in azione oppure alla loro immobilità, poi si sottrae e guarda, retrocedendo, lui per primo lasciando spazio a quello che accade. Il circuito è così costruito dall’ atto drammaturgico di scomporre, fare a pezzi, decostruire e rimontare un testo su una scena fatta di interferenze, didascalie, interruzioni, arresti, voci singole che emergono di fronte a un microfono, dialoghi o nodi drammatici tra due personaggi, continue rotture tra quello che si fa e si racconta, poi esplosioni improvvise a diversi livelli: sonore, visive o luminose.

Come scrive Latella: “L’idea centrale della messa in scena è di immaginare che quanto stia accadendo è una proiezione della memoria della protagonista, illuminare un primo piano della mente di lei mentre implode nel ricordo”. Nella progressione delle tre ore di spettacolo sempre più non è quello che accade veramente nella storia, non è la verità dei fatti, non il dramma realista che interessa, quanto l’universo psichico del personaggio Blanche. Siamo trascinati sempre più dentro questo mondo di finzione instabile, allucinante fatto delle sue identità fittizie, delle sue distorsioni menzognere, di voci, grida, o rumori, che interferiscono nella sua mente e d’una verità emozionale che emerge malgrado tutto, limpida, trasparente dall’universo frammentario e subcosciente della donna.

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Sfaccettature, molteplici volti fittizi si sovrappongono all’attrice su scena nelle tre ore di spettacolo, ugualmente azioni, avvenimenti reali o immaginari sono lasciati alla non totale conoscibilità da parte di chi guarda. Restano tanto ambigui quanto il funzionamento di questa psiche: nella scena finale di seduzione o stupro, quello che appare è questa visione incerta nella mente di chi la produce, la vive, la ricorda dominata dall’irruzione violenta, impersonale del volto anonimo d’un eros primordiale incarnato dalla figura di Stanley, desiderio visto come impulso distruttivo senza volontà, senza limiti- immagine velata lasciata volutamente all’ambiguità tra sopraffazione dell’uno o cedimento dell’altro- prendendo il sopravvento sulle singole soggettività.

Il meccanismo della messa in scena diventa una vera e propria indagine in situ del testo di Tennessee Williams: non c’è verità, non c’è interpretazione univoca possibile per il regista; c’è frammentazione, diffrazione, interferenza visiva e sonora tramite l’uso di voci diverse: monologo, dialogo dell’ uno all’altro, voce esterna, estraniante del narratore . E’ la metafora del fare luce attraverso immagini generate da riflettori mobili, diversi microfoni su un set cinematografico. Parti del testo, nuclei drammatici sono sovra-esposti, frammentati, messi in esubero, in esasperazione, demoltiplicati nei punti di vista, gli attori sovra-esposti ugualmente in una sala illuminata a giorno all’inizio della pièce. Se c’è una verità, malgrado chi la racconta, non conoscibile, non là prima, dall’inizio, non a priori definita dagli attori o dal regista essa riesce a rivelarsi nell’atto, trasversalmente, tra le righe frantumando la storia, decostruendola, mettendola a morte letteralmente come tale, facendola a pezzi volutamente come lo spazio scenico attraverso il meccanismo attivato dalle leve esplosive, sotterranee e pulsive di tali corpi.

Sotto la corteccia del dramma borghese la scena come il testo devono essere fatti corto-circuitare come un sistema pensato, agito e costruito d’una miriade d’oggetti o di voci, di spazi ingombrati di segni, parole e cose, scene del vivere quotidiano portate fuori dalla loro immediata realtà, fatte “derivare” per così dire : “una miriade d’oggetti che si prendono lo spazio”, troppi, troppo pieno, poi il nulla o il non-detto d’ una verità altra che trapela, si lascia intravedere quale sotto-testo imprescindibile, verità dell’anima o forse solo dei meccanismi subcoscienti che governano il desiderio.

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Fare saltare la macchina scenica: farla attraversare da corrente elettrica, forza viva, vibrazione sonora o espulsione luminosa; far sorgere scintille e poi farle esplodere, scaturire come quelle forze sotterranee, motore primo, combustibile unico del testo.

Sono questi punti di interruzione, di rottura, di strappo improvviso su quello che accade in scena: le diffrazioni di voci singole al microfono che interrompono un dialogo in corso, il battito ritmico di gesti agiti contro la narrazione esterna, i rumori improvvisi simili a interferenze disturbanti d’onde radio, o di bande erroneamente captate sul canale in visione; intermittenze di suoni stridenti, violente irruzioni di luci puntate contro, sugli occhi, l’esplosione di musica rock all’improvviso sulle sagome degli attori elettrizzati nello spazio e poi lasciandoli lì immobili nell’atto.

Il testo è fatto deflagrare nell’ ultima parte dello spettacolo al suono della musica rock: scena apocalittica illuminata da luci elettriche e raggi ultravioletti. Siamo scivolati nello spazio psichico della mente del personaggio, nel pieno d’una finzione che si tinge di luci elettriche abbaglianti, di riflessi violacei o alluminio-argentei. La visione allucinata della sua mente esplode al ritmo violento dell’hard rock, si riveste di colori metallici, alluminio brillanti, illuminati a vista dai riflettori sulle note esplose, sul movimento del corpo nell’effetto estatico d’un “rave party”. La musica ritmata e potente, i corpi in escandescenza, le luci incandescenti d’acciaio e di neon, appaiono come un corto-circuito elettrico, elettrizzato a vista.

Il desiderio è motore incandescente e sotterraneo della pièce sino ai suoi risvolti di violenza bruta nel finale, di eros animale nel rapporto tra Stella e Stanley, di pulsione incontrollata e infermità psichica nella quale trascinerà il personaggio di Blanche. Nella scena finale esso è là, iscritto, messo a nudo con violenza, nel suo volto impersonale come questi corpi desideranti in azione in uno spazio trasfigurato, reso circuito elettrico abbagliante dai riflettori e immerso in altre zone d’oscurità.

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Una scena deflagrata, esplosa e poi gelificata come questo corpo maschile lasciato ibernare in una ghiacciaia dopo lo scontro violento; una giovane donna incinta ventre nudo esposta, immobile sul fondo della scena, un’altra, lei Blanche la protagonista, trascinata da Stanley, allungata al suolo semi-svestita, un busto d’uomo nudo alle sue spalle nel vuoto tensivo che precede la lotta, il cedimento e la follia dell’atto, o nella sospensione immobile del dopo, sotto il segno del grido: eros infernale, accecante come questa luce senza limiti. Fondo blu elettrico irradiante dal proiettore metallico, freddo, raggelante, voci fuori campo. Nella sua mente, risa, schiamazzi, stretti al suolo, desiderio e distruzione, un tram chiamato desiderio, ultima fermata inferno. Infine il corpo della donna è sollevato da un regista-testimone e portato via , sollevato tra le sue braccia insieme al suo carico di morte.

Un mondo di oggetti alla deriva, una drammaturgia destrutturata, la verità nuda o l’irruzione violenta di queste forze folli e desideranti dal fondo dei corpi divengono motore d’un meccanismo scenico messo alla prova, portato al suo punto di rottura incendiaria in questa visione contemporanea di “un Tram chiamato desiderio”.

Elisa Castagnoli

***

Visto a Ravenna, Teatro Alighieri, (20 gennaio 2013)

UN TRAM CHE SI CHIAMA DESIDERIO
di Tennessee Williams
traduzione di Masolino D’Amico
regia: Antonio Latella
con: Laura Marinoni, Vinicio Marchioni, Elisabetta Valgoi, Giuseppe Lanino, Annibale Pavone, Rosario Tedesco
assistente alla regia: Brunella Giolivo
scene: Annelisa Zaccheria
costumi: Fabio Sonnino
luci: Robert John Resteghini
suono: Franco Visioli

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Elisa Castagnoli
Nata a Ravenna ma viaggiatrice e cittadina del mondo Elisa Castagnoli si è laureata in Lingue e Letterature Comparate all’Università di Bologna proseguendo con un Master alla University of Toronto. Insegna lingua e civiltà inglese nella scuola secondaria di II grado, collabora con varie riviste letterarie on-line e scrive un blog personale sull’arte. Simultaneamente, segue la danza contemporanea nella sua connessione tra corpo, movimento e scrittura.

1 COMMENTAIRE

  1. A proposito di Un tram chiamato desiderio, regia Antonio Latella
    Spettacolo che stravolge e snatura un testo teatrale bellissimo di Tennessee Williams ed un personagglio femminile molto complesso e profondo. Latella lo rende inguardabile, inascoltabile, gratuitamente volgare, incomprensibile. Ma la gente applaude ugualmente perché qualcuno, chissà perché, gli ha dato un premio. La tradizione teatrale italia e testi così importanti meriterebbero registi migliori che se ci tengono tanto a « rivoluzionare » le cose potrebbero farlo su testi scritti da loro invece di sfruttare nomi importanti per poi mettere in scena tutt’altro. Mi spiace soprattutto vedere a cosa sono ridotte le attrici italiane per lavorare anche quando avrebbero a disposizione testi con ruoli femminili di primo piano…qui se ne vede solo il lato B.

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