Velocità e lentezza, un binòmio. Come imparare a rispettare i tempi propri e altrui?

Da sempre c’è la tendenza ad assegnare alla velocità una posizione dominante rispetto alla lentezza eppure, fiabe popolari e leggende sin dalla antichità hanno inneggiato alle virtù della riflessione. Oltre ad arrivare al traguardo esiste un percorso da fare che spesso, ai fini della maturazione individuale, è finanche più importante. La consapevolezza richiede i suoi giusti ed individuali tempi, l’ansia del risultato e la fretta di arrivare sono alla base dello stress e della depressione delle nostre società occidentali.

“Chi va piano va sano e va lontano, chi va forte va contro alla morte”, “La gatta, per far di fretta, fece i figli ciechi”. Nonostante il carattere ammonitivo di questi modi di dire millenari, da sempre c’è la tendenza ad assegnare alla velocità una posizione dominante rispetto alla lentezza, assimilata, invece, spesso, a forme di rallentamento organico e/o mentale.

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È la lepre, in Esiopo, che sfida la tartaruga e non viceversa. Conosciamo bene l’esito di questa gara.
Passo dopo passo, la tartaruga raggiunge il traguardo. La lepre, al contrario, convinta della propria superiorità e di poter vincere senza alcun ostacolo, dopo essere partita come un fulmine, si sdraia a fare un sonnellino e, anche quando si mette a correre con tutte le sue forze, non riesce a farcela.

Tartaruga e lumaca sono gli appellativi con cui vengono definite le persone che portano avanti le loro attività con calma. Vengono esortate a muoversi, a svegliarsi, perché sono accusate di perdere tempo.

La lentezza viene vista, solitamente, come un attributo del quale giustificarsi, sinonimo di imperizia, di incapacità, di inesperienza, come quando si guida l’auto e si valuta la competenza del guidatore in base alla cifra di sorpassi che compie, alla capacità di arrivare in tempi brevi a destinazione, allo scarso numero di clacson che attiva da parte degli altri automobilisti nei suoi confronti.

Il Bianconiglio, in Alice nel paese delle meraviglie, corre e continua a ripetere: «È tardi! Ho fretta!». Alice vorrebbe chiedergli dove sta andando, ma il Bianconiglio non vuole sapere di fermarsi.

felicia18892731_jpg-r_760_x-f_jpg-q_x-xxyxx.jpgIl Bianconiglio assomiglia all’uomo occidentale sempre indaffarato, che rincorre non si sa cosa, ma, sfuggente a sé e agli altri, né può essere raggiunto né riesce a raggiungere quel qualcosa.

È, prima, il bambino condotto dai genitori qua e là per praticare uno sport, per suonare uno strumento musicale, per partecipare a gare e concorsi, senza sosta, pena il marchio di svogliato, se si sottrae alle attività che gli propinano o se impiega più tempo rispetto ai suoi coetanei. Un bambino, che diventa una specie di atleta dopato, o di pollo pompato, o di ortaggio sotto serra, esaltandone la precocità con abiti in miniatura – psicologici e reali – indossati (non sempre) dai “grandi”, senza rispettare tempi e linguaggi di generazioni differenti.

È, dopo, l’adulto, condotto, da aerei, treni ad alta velocità, metropolitane, da un posto all’altro del mondo, della nazione, della città, per lavorare, incessantemente, pena l’esclusione dai processi produttivi, come quando un malanno psichico od organico si intromettono, quasi come se fossero imprevisti, nella routine. Un adulto, che, dovendo attenersi ad una immaginaria tabella di marcia collettiva, è irrequieto quando è in fila ad uno sportello, è distratto rispetto a ciò e a chi ha intorno, diventando approssimativo e risolvendo le questioni affettive, lavorative, di svago, con un click di mouse. Un adulto, poi, che, come Pasquale – interpretato da Lino Banfi nel film Vieni avanti cretino –, da apprendista in una fabbrica di elettronica si trasforma in un automa che svolge mansioni alienanti.

Come un quiz a tempo, fatto per vincere denaro o l’ambito posto di lavoro, l’attuale vita societaria mette da parte chi non riesce a rispondere, in un lasso di tempo ridotto, a tutti i quesiti che vengono presentati.

Come su un tapirulan, veniamo costantemente incentivati a correre, a non fermarci, persuasi che raggiungeremo, così, il risultato desiderato, preoccupati – di contro – di restare indietro.

Se veloce è ciò che passa presto, perché vogliamo che qualcosa finisca presto? Si tratta di un evento penoso, del quale dobbiamo liberarci il prima possibile, avanzando il passo, finanche quello che ci conduce alla dimenticanza? È faticoso attendere di vedere l’evoluzione di una vicenda, aspettare che un dolore passi, che un lutto per una perdita faccia il suo corso e permetta di investire di nuovo energia affettiva e di avvicinarci, in primo luogo, a noi stessi? Ci figuriamo il traguardo e non il percorso? Intendiamo il primo come qualcosa di compiuto, di migliore ed auspicabile, mentre il secondo come qualcosa in divenire, da costruire, incerto?

Gli adolescenti, come la lepre, si misurano sulla velocità, non a caso desiderano crescere il prima possibile, per fare ciò che vogliono, convinti di non dover sottostare alle regole, perché leggono un potere in chi si è già nutrito, l’adulto. Le regole, tuttavia, hanno, sì, un volto coercitivo, precisandoci cosa possiamo e non possiamo fare, ma anche un volto facilitante, rendendo possibili le relazioni.

Chi incomincia a crescere e chi è già cresciuto, l’adolescente e l’adulto, participio presente e participio passato, sono, invece, generalmente, d’accordo sul fatto che ciò che è già concluso è da preferire a ciò che è ancora in corso e porta con sé una quota di non definizione. Credono, forse, che, attrezzandosi di strumenti-risparmia tempo, possono fare tutto quello che vogliono, senza dover impegnarsi a capire, ad analizzare, a ricercare.

In vero, è fondamentale comprendere che niente accade all’improvviso, che un problema o la soluzione creativa ad esso ha avuto un periodo di incubazione, un tempo di cui si può non essere consapevoli, ma che esiste e di cui ci si rende conto solo quando c’è una manifestazione visibile.

La questione non è su quale punto far pendere l’ago della bilancia, diventando sostenitori della velocità o della lentezza, giacché, nel quotidiano, tutti facciamo uso di strumenti veloci (internet, mezzi di trasporto sotterranei, dispositivi tecnologici, ecc…) e, contemporaneamente, cerchiamo momenti di distensione (centri benessere, agriturismi, tecniche di rilassamento, etc…), bensì sulla necessità di un lavoro di riflessione relativamente alle rinunce e alle possibilità a cui ci costringe e ci apre l’una o l’altra.

Come in un fast food, spesso, ingeriamo pensieri preconfezionati, per la foga di fare e di ricevere risposte, nell’illusione che sia sufficiente un battito di ciglia per ottenere ciò che cerchiamo o che ci sia un esperto che offre, lì per lì, conoscenze “su”.

Il non poter essere, avere, fare, sapere tutto e subito non è solo un limite, ma rappresenta pure una possibilità. Fa sì che ci impegniamo nella ricerca, che ammettiamo l’importanza dell’altro nella nostra vita, che incominciamo ad elaborare pensieri nostri senza prendere a prestito quelli degli altri.

Sembra scontato, ma c’è un tempo per mangiare ed un tempo per digerire, perché l’organismo decida cosa tenere per sé e cosa dar via; ancor prima c’è un tempo per preparare/si.

Sembra banale, forse, però, oggi, non lo è più, ma c’è un tempo per seminare ed un tempo per raccogliere: si semina in una stagione, si raccoglie in un’altra.

Non sempre ciò che facciamo dà frutti nell’immediato o, comunque, risultati di cui riusciamo ad accorgerci nel momento in cui li realizziamo. Per esempio, sul campo e a distanza, possiamo notare gli esiti di un training orientato all’acquisizione e allo sviluppo di competenze relazionali o di una psicoterapia, fondata sull’introspezione e non solo sulla modifica di comportamenti osservabili.

Molte volte, le persone parlano e non le si ascolta, o perché si pensa ad altro, a ciò che bisogna fare nel corso dell’istante successivo, o per la fretta di dare una risposta, convinti di averne una già pronta, adatta per ogni occasione, un po’ come quelle frasi contenute nei tascabili utilizzati per fare gli auguri.

La capacità di ascolto di sé e dell’altro si sviluppa con il tempo, sentendosi a proprio agio nell’accomodarsi in poltrona, non sedendosi in punta di sedia pronti ad allontanarsi al minimo intoppo. D’altra parte, la parola ascolto è composta da au-, radice di auris = orecchio e, da colere = coltivare, a sua volta derivata da una radice indoeuropea Kwel, che indica il movimento circolare ed esprime il concetto di interesse, coltivazione, protezione. Ha a che fare, quindi, con le azioni dell’accogliere e del contenere, momenti cruciali di ogni incontro, che, solo se rispettano i tempi propri ed altrui, non diventa scontro.

La velocità aumenta l’individualismo e riduce la cooperazione. Ciascuno segue il proprio passo in vista di una gratificazione immediata e non aspetta chi sta indietro, anzi, spesso, non sa chi sta indietro, non lo conosce affatto. Camminare insieme, decidendo unitamente l’andatura e il percorso, richiede più tempo, perché bisogna riconoscere l’interdipendenza, negoziare sulle differenze ed integrarle. Accade, allora, che siano pochi a decidere o che ognuno decida per conto proprio, percependo l’altro come antagonista e non come socio per un’impresa comune. C’è un proverbio che dice “Da soli si va più veloci, insieme si va più lontano”.

Andare più veloci non significa inevitabilmente andare più lontano e/o giungere a ciò che ci si è prefissati o che qualcun altro ha stabilito per noi.

felicialievre-tortue.jpgLa lepre, in Esiopo, compie un errore di valutazione: non valuta adeguatamente né il rapporto tra spazio da percorrere e tempo necessario allo scopo, né le proprie competenze e quelle della tartaruga, di quella che, nel gergo dell’economia aziendale, verrebbe chiamata la sua competitor, cioè vissuta come concorrente, giacché propone un modello di comportamento diverso dal suo. La tartaruga, infatti, è consapevole di se stessa, dei propri punti forza e dei propri punti deboli, sa, perciò, di dover partire in tempo e di dover essere costante nel suo cammino se vuole arrivare alla meta.

Pensare con la propria testa, provando a trovare un equilibrio tra rallentamento ed accelerazione, tra depressione ed ansia, è una pratica sempre più rara, poiché necessita di tempo e di consapevolezza. Richiede di aspettare che le emozioni provate possano essere gestite, comprese e riconosciute e non rifiutate. Richiede di aspettare che la mente possa riflettere sull’esperienza e non si limiti ad utilizzare teorie fornite da altri per capirla ed interpretarla. Richiede di osservare pazientemente ciò che vive e si muove dentro e attorno a noi, dentro e attorno agli altri, coltivando la curiosità e la voglia di stupirsi.

Pensare con la propria testa permette di prendere, finalmente, un po’ di respiro, di addormentarsi spontaneamente – senza l’abuso di sostanze chimiche, che offuscano e rendono passivi –, di lasciarsi andare – senza credere di star perdendo tempo –, di lasciare che le esperienze che abbiamo fatto, i momenti che abbiamo vissuto durante la veglia, provino a trovare la loro combinazione originale, i sogni, sottraendosi, per qualche ora, al nostro controllo. I sogni possono dirci cose interessanti su di noi come individui, ma anche su noi quali esseri in relazione, sul contesto sociale, culturale, politico, storico in cui viviamo e a cui apparteniamo. Per essere visti, però, necessitano di tempo. Abbiamo bisogno di dormire, abbiamo bisogno di sognare, abbiamo bisogno di tempo! In questa maniera, può diventare fattibile scorgere ciò che fino ad un certo punto non è stato visto, uscire dalla pigrizia e dalla passività, ascoltare – al pari di un ornitologo in città – ciò che altri non odono – il canto di un uccello –, trasformare ciò che accade – specialmente ciò che è considerato avverso, come può essere una patologia – da inciampo in opportunità, di cambiamento di sé, persino di fare incontri inaspettati.

Ancora una volta una tartaruga ce lo insegna, come narra la canzone La bella tartaruga, cantata da Bruno Lauzi allo Zecchino d’oro del 1975, suggeritami, qualche giorno fa, da una pediatra. Una canzone nata per i bambini, ma che credo possa dire qualcosa ai “grandi”:

La bella tartaruga/che cosa mangerà/chi lo sa/chi lo sa/due foglie di lattuga/poi si riposerà/ah ah ah/ah ah ah/la tartaruga/un tempo fu un animale/che correva/a testa in giù/come un siluro/filava via/che ti sembrava/un treno/sulla ferrovia/ma avvenne/un incidente/un muro la fermò/si ruppe/qualche dente/e allora rallentò/la tartaruga/da allora in poi/lascia che a correre/pensiamo solo noi/perchè quel giorno/poco più in là/andando piano/lei trovò/la felicità/un bosco di carote/un mare di gelato/che lei correndo troppo/non aveva mai guardato/e un biondo/tartarugo corazzato/che ha sposato/un mese fa/la bella tartaruga/nel mare va perché/ma perché/ma perché/fa il bagno/e poi si asciuga/dai tempi di Noè/eh eh eh/eh eh eh/la tartaruga/lenta com’è/afferra al volo/la fortuna quando c’è/dietro una foglia/lungo la via/lei ha trovato/là per là/la felicità/un prato d’insalata/un lago di frittata/spaghetti alla chitarra/per passare la serata/un bosco di carote/un mare di gelato/che lei correndo troppo/non aveva mai notato/e un biondo/tartarugo corazzato/che ha sposato/un mese fa /un mese fa.

Felicia Tafuri (psicologa)

 

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