Venezia 69^. Guida ragionata ai film premiati.

Chiuso il sipario sul 69^ Festival che proviamo a ripercorrere criticamente con un breve excursus e le recensioni dei film vincitori. L’elenco completo delle opere premiate.


Pietà di Kim Ki-duk

Leone d’Oro

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E così, alla fine, il regista sudcoreano Kim ki-duk, ce l’ha fatta; ha vinto il suo primo Leone d’Oro alla 69esima edizione della Mostra del cinema di Venezia con la pellicola Pietà. C’era andato vicino già nel 2004, quando aveva ricevuto il Leone d’Argento per il film Ferro 3 – La casa vuota, che aveva riscosso ampi giudizi positivi sia di pubblico che di critica. Kim ki-duk ha un legame particolare con Venezia. L’artista si era fatto conoscere alla Mostra nel 2000, con la sua quinta opera (la prima presentata da noi, in un concorso italiano): L’isola. Un film duro, ma nel contempo con immagini poetiche, dove vi erano alcune scene estreme che avevano turbato alcuni spettatori. Il 52enne regista sudcoreano gioca nelle sue pellicole tra poesia e violenza, amore talvolta estremo, e crudeltà; quest’ultima insita in ognuno di noi, e solo il sentimento più puro a volte riesce a quietare, ma non a estirparla, la cattiveria. Anche il film Pietà si basa su queste opposizioni.

C’è un giovane (l’attore Lee Jung-jin) odioso, il cui lavoro è fare del male a persone che non riescono a saldare i debiti contratti con uno strozzino. Il giovane vive la sua misera condizione di violenza nel tessuto di una società che si regge su affari e denaro. Un denaro che corrode e corrompe tutto, fino alla distruzione/mutilazione di coloro che per ripagare i debiti si fanno ferire nel corpo per riscuotere i soldi dell’assicurazione. Infine c’è una donna (l’attrice Cho Min-soo) che un giorno entra nella sua vita e gli rivela di essere sua madre e farà di tutto per stargli accanto. Da ciò scaturirà una forma di odio-amore. L’odio verrà messo in crisi dal sentimento – in questo caso materno – che può essere disarmante e che fa vacillare; l’affetto ha una forza così lacerante che è capace di far mettere in discussione la propria vita e valutare con altri occhi quella degli altri. Ma anche l’amore può illudere e far male quando si rivela tradimento, vendetta, espiazione.

Kim ki-duk ha dichiarato di aver reso idea di questo film un tema universale. La Corea, come qualsiasi parte del mondo dove l’illusione del benessere annulla il bene, e ciò che è più importante: la vita. Il film gioca bene con questi contrasti, e Kim ki-duk gira tra realismo e poesia, immagini crude e sentimenti, per offrire una storia che fa riflettere.

The Master di Paul Thomas Anderson

Leone d’Argento

e Coppa Volpi per la Migliore Interpretazione maschile a

Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix

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L’illusione è anche il tema di fondo del film vincitore del Leone d’Argento: The Master di Paul Thomas Anderson. E’ la prima volta che il regista di “Sidney” (1996), “Boogie Nights” (1997) “Magnolia”(1999), “Ubriaco d’amore”(2002) e “Il petroliere”(2007), presenta un film a Venezia dopo aver riscosso consensi e primi soprattutto negli Stati Uniti. Il 42enne regista americano ama realizzare storie ricche di intrecci, dialoghi brevi che non necessariamente devono risultare importanti, immagini accurate dalla fotografia impeccabile che possono essere visionarie e emblematiche. A Venezia The Master è arrivato con quell’aura di mistero e di fascino poiché l’argomento sembrava polemico nei confronti di un movimento di tipo spirituale-filosofico-religioso,”Scientology”, che riscuote successo oltre Atlantico. Un film che ha la potenza delle immagini come ne Il petroliere, ambizioso e costoso (si parla intorno ai 35 milioni di dollari) e si vede nell’accuratezza della ricostruzione di interni e dei costumi.

La storia è ambientata nell’immediato secondo dopoguerra. C’è un giovane, Freddie (interpretato da Joaquin Phoenix) ex marinaio della US. Navy, minato nel fisico e nello spirito, alcolizzato, che si imbatte in uno scrittore, filosofo, scienziato, Lancaster Dodd (l’attore Philip Seymour Hoffman) il quale è alla guida di un movimento/setta spirtuale che teorizza una sorta di purificazione del corpo e dell’anima attraverso sedute di gruppo, individuali e mediante l’uso dell’ipnosi. Del movimento fanno parte diversi membri della sua famiglia e un gruppo di accoliti, soprattutto tra i benestanti californiani che sovvenzionano i suoi incontri e i suoi libri.

Tra lo scrittore-leader e l’ex marinaio si instaura una forte amicizia segnata dagli aperitivi-intrugli preparati da quest’ultimo e inoltre dalla necessità di Freddie di mantenersi con un lavoro. Ma anche il “Maestro” sembra conquistato dalla personalità del giovane; c’è forse un interesse nel cercare di plasmarlo o di guarirlo dalle ferite che porta dentro. La pellicola poteva anche chiamarsi “Il discepolo” poiché la storia viene vista dal punto di vista dell’ex marinaio, che con scetticismo e curiosità entrerà a far parte di questa setta (più per approfittarne che per vera convinzione). Egli per un periodo farà da sostenitore e guardia personale del leader, ma il suo alcolismo e le sue maniere incivili lo porteranno ad un’esclusione (voluta dalla moglie del leader, una convincente Amy Adams) da quel mondo che non fa per lui, con enorme dispiacere da parte del suo affezionato amico e maestro Lancaster Dodd. L’illusione è quindi quella di chi vuole cambiare il prossimo (in buona fede, a fin di bene, per manipolarlo, per avere un modo per sbarcare il lunario sui disagi sociali altrui) e quella di chi vuole cambiare; per dare un senso alla propria vita, per non restare un fallito, ma poi resta lo stesso, perché la sua indole è quella.

Per chi come noi al Lido, ha avuto la fortuna di poter vedere la pellicola proiettata in 70mm, l’impatto visivo è stato forte; una fotografia impeccabile (Mihai Malaimare Jr.) scenografie perfette (David Crank, Jack Fisk) e le musiche non troppo invadenti (Jonny Greenwood). Del film colpiscono soprattutto la bravura dei due protagonisti, Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman (meritati vincitori ex aequo della Coppa Volpi per la Migliore Interpretazione maschile) che si impadroniscono nel cuore e nell’anima dei due personaggi. Phoenix poi, ha le espressioni facciali e i movimenti del busto e delle articolazioni di chi sembra davvero portare nel fisico le sofferenze di una vita. Tuttavia, sebbene il regista sembra ancora ispirarsi a grandi suo Maestri cinematografici (Wells, Kubrick, Altman, Scorsese) il suo film sembra essere molto dilatato (e quindi lungo) incapace di centrare l’obbiettivo della storia, ma di guardare a tutti i suoi contorni, le sue sfumature, i particolari, senza una vera e propria conclusione; una sospensione del racconto quindi, come quegli autori di narrativa contemporanea che trasmettono sensazioni ma non vogliono offrire soluzioni.

Fill the Void di Rama Burshtein

La Coppa Volpi per la Migliore Interpretazione Femminile a
Hadas Yaron

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La Coppa Volpi per la Migliore Interpretazione Femminile è andata invece all’attrice Hadas Yaron per la sua intensa e convincente interpretazione nel film “Lemale et Ha’Chalal (Fill the Void) film israeliano di Rama Burshtein. La Yaron interpreta Shira, una ragazza diciottenne, studentessa, che vive a Tel Aviv con la sua famiglia, appartenente alla comunità chassidica ortodossa. A lei, che il mondo si doveva aprire con sogni e speranze e un matrimonio con uno dei ragazzi della comunità, tutto viene a crollare quando una delle sue sorelle viene a mancare il giorno del parto. Il giovane vedovo Yochay, terminato il lutto, troverà una prospettiva di lavoro e di matrimonio all’estero. Ciò disturberà la suocera, che farà di tutto per convincere sua figlia Shira a sposare Yochay per non veder partire suo genero con il nipotino. La pellicola della Burhstein inquadra molto bene un mondo chiuso, quello della comunità chassidica (e lei è sposata con uno chassidico) fatto di tradizioni, forte religione, che si rispecchia anche negli abiti, nei copricapi tradizionali, e nel portamento dei capelli e delle barbe. Un mondo che può stritolare, quindi, la vita di una ragazza, con delle scelte imposte da altri. La pellicola ha una fotografia molto bella, patinata, che gioca con gli ambienti, le stanze della casa paterna di Shira e gli ambienti di culto dove si incontrano i rabbini. Colpiscono i primi piani intensi, sugli sguardi, gli occhi della giovane attrice, che descrivono bene le sue angosce, i suoi stati d’animo, in un momento della sua vita in cui deve prendere una decisione difficile: seguire il cuore o la richiesta della sua famiglia.

Paradise Faith: di Ulrich Seidl

Premio Speciale della Giuria

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Il Premio Speciale della Giuria è stato assegnato a “Paradies: Glaube” (Paradise: Faith) del regista e sceneggiatore austriaco Ulrich Seidl. Anche il 60enne Seidl è conosciuto a Venezia, dove nel 2001 aveva già presentato alla Mostra del Cinema il suo lungometraggio “Canicola” che aveva vinto il Gran Premio della Giuria. Autore di documentari e opere televisive, Seidl nelle sue pellicole non si discosta da queste cifre stilistiche. Anche in quest’ultimo lavoro, secondo capitolo di una trilogia dedicata alle varie forme di ricerca della felicità (il primo è “Paradise: Liebe” del 2011, sul turismo sessuale di una turista austriaca, ambientato in Kenya) vi è il film all’interno di una struttura documentaristica. La protagonista, Annamaria (la brava attrice Maria Hofstätter) è convinta che la felicità si trovi in Gesù; ella dedica le sue vacanze ad andare in giro per i quartieri dove invita gli inquilini dei palazzi a pregare con lei, nelle loro case, davanti a una statuetta della Madonna perché l’Austria possa ritornare sulla retta via. Efficaci sono alcuni siparietti dialettici con alcune persone che incontra. Seidl mostra una donna infervorata nel suo rapporto quotidiano con Cristo: le penitenze in casa, le fustigazioni davanti al crocifisso, i dialoghi con Gesù, gli incontri di preghiera e le canzoni rivolte al Signore. Un mondo personale della protagonista, chiuso, bigotto, estremizzato, che verrà messo in discussione con il ritorno del marito (l’attore Nabil Saleh) dopo anni di lontananza, che lo sceneggiatore presenta come un musulmano egiziano, immobilizzato su una sedia a rotelle.

Le due personalità allora si scontreranno, ognuno con le proprie convinzioni. Quel che resta della loro felice unione è un passato dimenticato. La cornice con l’immagine di Gesù sul comodino della donna ha da tempo sostituito il ritratto della giovane coppia di sposi. Annamaria mal sopporta la presenza di quell’uomo, per lei ormai diventato un estraneo, che disturba il suo mondo fatto di fede e amore ultraterreno. Il regista Seidl pone, come sempre nei suoi film, alcune scene provocatorie: la protagonista, a letto, che mette sotto alle lenzuola il crocifisso, e geme in una sorta di masturbazione con l’oggetto sacro. Un’altra è quando il marito sputa in segno di disprezzo sul tavolo attorno al quale sono raccolti in preghiera gli amici di Annamaria. Un’altra ancora è quando il marito, in casa, da solo, gira per le varie stanze a staccare dalle pareti tutte le immagini sacre che sono appese.

Seidl gioca, dicevamo, nel provocare; ma la provocazione risulta fine a se stessa. Non c’è nulla di scandaloso, se non questa sorta di irriverenza che però è estremizzata ed è notoria per chi conosce questo regista; si sperimentano quindi nuovi eccessi per far parlare di se, o di un film. Tuttavia il gioco è ormai chiaro. Resta tuttavia il fatto che la bravura dell’interprete principale, la Hofstätter (che si è dovuta preparare con un lungo e faticoso “training” religioso per entrare nella parte) è dovuto a un personaggio che rientra più in una forma patologica che in una vera sostanza di fede.

E’ stato il figlio di Daniele Ciprì

Premio per il migliore contributo tecnico

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Se il film di Marco Bellocchio “Bella addormentata” nonostante il gradimento della critica e del pubblico alla proiezione in Sala Grande non è stato nemmeno preso in considerazione dalla giuria presieduta da Michael Mann, invece E’ stato il figlio di Daniele Ciprì ha ottenuto il Premio per il migliore contributo tecnico. Probabilmente la qualità stilistica e autoriale in questo caso ha giocato bene. La famiglia Ciraulo, che è il centro del racconto sul quale si basa l’omonimo romanzo di Roberto Alajmo (Mondadori, 2006) con il personaggio di Nicola (interpretato da un espressivo Toni Servillo) richiama alla memoria i “Brutti sporchi e cattivi” di Scola, le storie alla Monicelli e Comencini, ma soprattutto le connotazioni della “Cinico tv” sulle quali si sono fatte le ossa (e il nome) Ciprì insieme a Franco Maresco.

Tutto parte da una storia, raccontata da un uomo che aspetta il proprio turno per pagare una bolletta in un ufficio postale (l’attore Alfredo Castro, protagonista di “Tony Manero”). Il tipo è un po’ strano; racconta storie assurde. Tuttavia il racconto che vede la famiglia Ciraulo vittima di un grave torto, coinvolge le persone presenti. I Ciraulo hanno visto morire la propria figlia più piccola uccisa da un proiettile vagante in uno di quei regolamenti di conti che funestano i quartieri di Palermo. Un vicino di casa suggerisce al padre della piccola di chiedere allo Stato un risarcimento per le vittime di mafia. Nicola inizia la trafila burocratica e si mette per mano di un avvocato. Tuttavia, nell’attesa, la famiglia inizia a fare debiti prima ancora di incassare il denaro. Nicola è costretto a ricorrere a un usuraio. Quando finalmente i soldi arriveranno, pagati i debiti, Nicola convincerà i suoi ad acquistare un automobile Mercedes; un auto simbolo di ricchezza, unico vero riscatto alla miseria agli occhi della gente. Ma la Mercedes diventerà per i Ciraulo una maledizione, strumento di sconfitta e di rovina. Un graffio alla carrozzeria, scatenerà la rabbia del padre nei confronti del figlio Tancredi, considerato un ottuso nullafacente; il dramma si svolgerà tra le mura di casa Ciraulo. Un dramma che verrà risolto dalle donne di casa, a dimostrare come sono loro il tessuto razionale/fondamentale/spregiudicato della famiglia patriarcale. Il cerchio verrà chiuso; la fine sarà l’inizio del film.

Il regista Ciprì (autore della sceneggiatura e realizzatore della fotografia) inquadra molto bene i volti, gli ambienti, il degrado sociale e umano dei personaggi, con trovate estemporanee e illuminanti. Bravi tutti gli attori, a cominciare da Toni Servillo, che offre una macchietta di Nicola forse troppo debordante, e poi le donne del film, come Giselda Volodi (la moglie di Nicola) e Aurora Quattrocchi (nonna Rosa, la mente razionale della storia). Per ultimo citiamo il giovane attore esordiente Fabrizio Falco che per la sua convincente interpretazione del figlio Tancredi, e per il ruolo del fratello di Michele Riondino nel film “Bella Addormentata” ha meritato il Premio Marcello Mastroianni assegnato a un giovane attore emergente.

Après mai di Olivier Assayas

Premio per la migliore sceneggiatura

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Per ultimo, il premio per la migliore sceneggiatura è andato al film Après mai di Olivier Assayas, uno sguardo su una generazione che aveva 18 anni nel 1971 in Francia, quando ancora la scia del Sessantotto lasciava i suoi segni. Le speranze, gli ideali, i fallimenti di coloro che avevano partecipato alle contestazioni e alle utopie rivoluzionarie, si riversano in questi ragazzi che ora sono divisi tra aspirazioni di lotta e le loro concrete scelte di vita. Partendo da un suo film precedente, “L’eau froide” (1994), il 57enne regista francese si concentra in questo suo ideale proseguimento – immettendo nei protagonisti un po’ della sua autobiografia – su tre giovani liceali: Gilles (Clément Métayer), Christine (Lola Créton) e Alain (Félix Armand) che al termine della scuola, si trovano a dover decidere del loro futuro. I due ragazzi vogliono studiare arte e diventare i pittori, mentre la ragazza seguirà la causa del cinema militante. Le loro strade a volte si incontrano, a volte si allontanano e nel loro percorso troveranno diversi ostacoli; da quelli sentimentali (il problematico amore di Gilles per l’eterea Laure, l’attrice Carole Combes) alle amicizie difficili, la droga, la violenza, la morte, la decisione per un aborto clandestino, la propensione a un lavoro “borghese” come quello dei genitori. Tra scene intense dedicate al cinema (il lavoro di Gilles sul set di un film di Maigret a Parigi e quelle in Inghilterra negli studi Pinewood) e immagini di scontri, o addirittura ipnotiche (il fuoco che devasta un’abitazione) Assayas dirige con mano convincente, senza nostalgie e ideologie politiche facili (lontano dal pessimismo de “Les Amants réguliers” di Garrel, o dalla fine delle illusioni di Bertolucci di “The Dreamers”) la storia di una generazione che cercava di essere ancora libera di scegliere, di lottare, di amare. Il tutto sostenuto da una colonna sonora straordinaria (Syd Barrett, Nick Drake, Soft Machine, Amazing Blondel, Tangerine Dream, ecc) che danno la giusta dimensione e la vivacità musicale del periodo.

Andrea Curcione

Elenco completo delle opere premiate

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Andrea Curcione
Andrea Curcione è nato e risiede a Venezia dal 1964. Laureato in Storia all'Università Ca'Foscari di Venezia, ama i libri, la scrittura, la fotografia e il disegno. Giornalista pubblicista, ha pubblicato alcuni racconti e romanzi noir di ambientazione veneziana. Si occupa soprattutto di critica cinematografica, ma per Altritaliani scrive anche di avvenimenti culturali e mostre di particolare interesse che si inaugurano nella città lagunare.